La cardarella è poliglotta. Translate!

domenica 2 novembre 2025

03:44 - No comments

Dieci dita (6 gennaio 2014)

 C'era una volta una mano. Una mano come tante, con cinque dita, cinque unghie, qualche ruga, le linee nel palmo, i polpastrelli morbidi e cinque nocche. Viveva attaccata a un polso, quella mano. E il polso era parte di un corpo. Col tempo aveva imparato a muoversi, afferrare, accarezzare, pregare, chiedere. Faceva tutto quello che una mano può fare, né più né meno. Il punto era che amava farlo, fare qualunque cosa, non stava mai ferma. Senza voce a suo modo parlava, chiedeva, confessava, ma quello che amava di più al mondo era far parte di un abbraccio. Avete mai pensato ad un abbraccio senza le mani alla fine? Senza entrambe le mani che si sforzano di toccarsi, tanto le braccia stringono forte. Non sarebbe completo. Sarebbe come una carezza senza dita. E quella mano è cresciuta con la voglia d'amore tra le dita. Quando le capitava di viverlo tra capo e collo era entusiasta, si toccava il cuore e trascorreva i giorni riempiendolo con l'esperienza. Mai però avrebbe immaginato che non aveva ancora conosciuto quella forma d'amore che è la più vera, la più potente, quella più piena e completa che una mano abbia la possibilità di stringere. Lo toccò per la prima volta una sera, tremando di paura. Tra lo sconcerto e le domande che solo una mano sa farsi: "Sarò all'altezza di tutto questo?" Ma fu un momento perché in cuor suo pensava che chissà come sarebbe andata, non voleva farsi illusioni per quanto queste abbiano colori vivaci e siano morbide al tatto. Il tempo trascorse con la sua solita e naturale veemenza, l'inverno finì e la mano si ritrovò ad accarezzare un piccolo mondo fatto di acqua e cuori pulsanti. Un mondo tondo come la Terra, pieno di speranza come solo il pancione di una mamma sa essere. Sentiva la vita nel suo palmo, colpi piccoli tuttavia con tutta la forza della gioia in ognuno di essi. Man mano che i giorni passavano la mano passò a spostarsi nervosamente i capelli dal viso, vittima di un caldo patito con insofferenza durante l'estate più fredda degli ultimi dieci anni. E si chiedeva continuamente quale forma avrebbe avuto l'altra mano, quella che aspettava di stringere morbida contro il suo petto. Quando la manina che aspettava è nata non ha potuto toccarla. Una tortura riservata solo a chi sa essere tanto forte da sopportare l'amore, tutto insieme, che ti squarcia il petto. È nata perfetta quella manina. Avvolta in un telo verde stretto intorno al corpicino morbido e profumato. Si confonderà sempre tra altri milioni di mani, tutte con cinque dita, cinque nocche, i polpastrelli, le linee nel palmo. E crescerà, vedrà qualche ruga prendere il posto delle pieghette soffici che hanno solo i bimbi, si perderà nell'oblio di una città sempre troppo grande e strafottente. Ora le dieci dita sono un tutt'uno. Quando la manina stringe un dito della mano è come un abbraccio. Quando la mano la stringe piano è per proteggerla, come se volesse creargli una piccola casa intorno. Quando giocano toccandosi tra i polpastrelli, cinque papere invisibili nuotano in un laghetto immaginario al centro della mano, aspettando che quelle minuscole dita ne prendano il posto per salvarle da pericoli inesistenti. Ogni sera la manina cerca la mano o anche solo le sue dita e si addormenta così, ignorando nella sua gioiosità che un giorno dovrà lasciarla. La mano gli porgerà piatti colmi di cibo, gli insegnerà quel che può, gli indicherà il cielo blu e i palloncini colorati. Gli sventolerà il pullover che serve a proteggerla da freddi immaginari ogni volta che lo lascerà a casa. E sarà allora, quando il pullover non sarà più dimenticato, che la mano, pur essendo consapevole di qual è la legge naturale, sentirà indiscutibilmente freddo.


Pronto, papà. (10 dicembre 2013)

 Qui non c'è da inmaginarsi la prima volta che mio figlio dirà 'mamma!'. 

Magari in un turbinio di coccole sul letto, con gli occhi dolci e una carezza in più, o magari tutto incazzato perché l'ho poggiato un attimo per terra che dovevo correre a fare pipì. 
Ma c'è da fantasticare sulla prima volta che mio figlio dirà 'nonno!'.
Sarà allora che qualsiasi fatto accaduto durante il lustro precedente non avrà storia, anche se sui libri di storia è riportato. 
Sarà allora che mio padre, il nonno di cui sopra, diventerà definitivamente nu strunz. 
È stato un percorso deciso, ma graduale. Ha cominciato a rincoglionirsi quando, ormai al sesto mese, la mia pancia era evidente. E allora mi portava cibo, quello che secondo lui avrebbe fatto bene al nano. Quando il pargolo è nato è stata un'ascesa al rimbambimento senza soluzione di continuità. Ogni giorno in clinica per tre giorni, a scattare foto oltre il vetro che lo separava da Alessandro; tornata a casa si sarebbe volentieri accampato in una canadese, pur di vigilare ed essere sicuro che andasse tutto bene. Ma visto che non ha potuto farlo, ha preso a chiamare tre o quattro volte al giorno. La telefonata è più o meno sempre la stessa: "Ha mangiato? Ha dormito? Tutto a posto? (Dove per 'tutto a posto' s'intende: piange? Gli manca qualcosa? Glielo porto io?)". 
A me, ovviamente, manco un fetentissimo come stai, ma vabbè. Ogni volta che corre per venire a stare col piccolo si presenta nel peggiore dei casi con le arance che devo mangiare 'perché fanno bene a lui'. Altrimenti con un cappellino, una tutina, un paio di calzini. 
"Papà ma non spendere soldi. Questo cresce a vista d'occhio. Una cosa mò gliela metti e mò la devi togliere di mezzo che è piccola." 
"Fatt e cazz tuoje."
Già blatera di quando se lo porterà allo stadio o gli comprerà il primo pallone. Di quando gli darà i consigli sulle femmine o gli controllerà i compiti. E qui c'è da capire io dove sarò. Probabilmente legata a una sedia e imbavagliata. L'ultima volta ha portato una palestrina al piccolo. Di quelle che hanno una copertina morbida e due archi fissati sopra con tanti giochini rumorosi appesi. Alessandro che pur essendo un bimbo precoce è comunque ancora piccino, la guardava, era attratto dai colori, ma non è certamente impazzito. 
A mio padre ho dovuto quasi fare acqua e zucchero: "Ma non gli piace?" 
"E perché non gli piace?"
"Uh marò, Ale guarda che bella!", diceva in preda allo sconforto vedendo il nano che cercava solo la tetta. 
Eh, son cose. 
Ieri il bimbo è stato vittima del suo primo vaccino. Dover arrivare entro un certo orario in un posto a otto km da casa non è certo una cosa semplice se prima devi svegliarti, svegliare il piccolo, farlo mangiare, lavarlo, vestirlo, calmarlo, lavarti, vestirti, ecc. Se poi si aggiunge il nonno che chiama ogni mezz'ora solo per chiedere 'a che state?' rischi di arrivare al punto di sbrocco senza ritorno. 
E infine: "Senti, ma oggi piove. Perché non ce lo porti domani?" 
"Ma mi hanno dato appuntamento per oggi, mica posso presentarmi quando dico io..." 
"No, perché ho paura che si bagna."
Quindi la prima volta che il pupo dirà 'nonno!', preparatevi: mio padre lo ricoverano. 

Un mese. Il primo. (27 ottobre 2013)

 Io non lo so se chi ha inventato la "mamma" aveva in mente una serie di regole precise. Una sorta di vadevecum da seguire per esserlo e farla bene. Magari pensava solo al cuore. A quello più sincero. Perchè quando vivi l'amore incondizionato e puro verso un altro essere umano ce lo devi mettere per forza, tutto. Quello che so che il mio adesso è tuo. Prima che anche tu viva per un'altra persona e ti renda conto di quanto amore hai dentro, cercherò d'insegnarti a donare agli altri un pezzo del tuo cuore.

Senza avere la paura che non ti venga reso o che ti venga restituito pestato. Perchè, vedi, è meglio aver provato. Sempre. Che restare col rimpianto di non aver fatto niente. Perchè poi è il niente che ti resta tra le mani, mentre se conservi il tentativo, quello, credimi, ha un bel sapore. A prescindere dal risultato. Cercherò d'insegnarti a ridere col cuore, oltrechè con gli occhi. Ad aver rispetto per ogni creatura, a non arrenderti quando cadrai seduto tentando i primi passi. A rialzarti dolorante e sorridere a chi riderà di te. A reagire riempiendo spazi che ti sembrano vuoti, specie quando quegli spazi saranno intorno a te. Ad avere una bell'anima, nonostante il mondo intorno. Farò il possibile per farti capire che dovrai scegliere per te, ma anche per chi ami. Cercherò di insegnarti a sorridere anche quando ti ritroverai sotto la pioggia improvvisa e scrosciante degli eventi che non puoi fermare; in quel caso dovrai aprire l'ombrello della pazienza, amore mio. Spero di riuscire a farti capire che l'amore è un diritto di ognuno, ma trattarlo con cura è un dovere. Tenterò di portare bellezza nella tua vita. Così come tu ne hai portato nella mia.
Tanti auguri per il tuo primo mese di vita, vita mia.

03:39 - No comments

Metti caso (11 novembre 2013)

 Metti caso che una di punto in bianco, piena di certezze, poche ma solide, si senta smarrita proprio perché di certezze ormai ne ha e non c'è abituata. Le guarda male, come se fossero catene che la legano e non corde a cui aggrapparsi se dovesse barcollare. 

Metti caso che una si sente lesa nella propria libertà, come se all'improvviso fosse arrivato chi l'ha presa e rinchiusa in una cella due metri per un cuore. Non c'è spazio, non si respira. Ma c'è una bella finestra per guardare il mare. Lo guardi, ma non puoi andarci. Ne senti l'odore, il rumore, ricordi la bellezza della sabbia sotto i piedi, ma vivi così: di ricordi. E ti distruggi. 
Metti caso che non nega l'amore a suo figlio e che sorride solo se lo fa anche lui, ma che vive e non si sente viva.
Metti caso che una pianga ogni giorno, quasi senza sosta e senza motivo.  Che di motivi per ridere e sentirsi felice dovrebbe averne a centinaia, ma che invece ora che si ritrova senza più nulla da aspettare, ha un macigno sul cuore.
E che faccia i conti con la propria coscienza, che la chiama 'madre degenere'. 
Metti caso che l'unico desiderio sia quello di andare a bere una birra occhi negli occhi, ridere, parlare, come se non esistesse altro.
Metti caso che una non abbia più entusiasmo per le cose, si senta morta dentro, quando dovrebbe essere viva mai come ora. 
Metti caso che da un giorno all'altro non si senta più padrona della propria vita, che avendo lei una personalità forte e decisa, si senta proprio per questo ancor più schiacciata dal peso della responsabilità e della nostalgia. 
Ecco. Tu, a una che si sente così, cosa diresti?

Grosso e spalle larghe (13 novembre 2013)

 Mi si è presentato davanti all'improvviso. Quando io neanche credevo esistesse. Frugale, spartano nello stile, ma raffinato nei modi. Era grosso, larghe spalle, di quelle che ti viene voglia proprio di piangerci sopra. Lunghe gambe per venire dal passato, la tristezza nelle mani, le ciglia fatte di mancanza e lo sguardo malinconico di chi pensa a quel che sarebbe potuto essere, ma non è stato. Fili d'argento tra i capelli, incastrati tra paura, vigliaccheria, scuse banali, desideri non confessati, bugie, eventi inaspettati che sono stati chiamati destino. Mi ha guardata con l'aria nostalgica e si voltava spesso dietro di sè, come a cercare qualcuno. 

O qualcosa. 
"Chi cerca?" 
"Te." 
"Non ha nessuno dietro. Perché continua a girarsi?" 
"Perché spero di vedere il tempo passato." 
"Ma lei chi è, cosa vuole da me?" 
"Sono un tuo rimpianto. Sono venuto perché mi hai cercato tu. Ecco, tieni. Questo è il conto." 
"Salato." 
"Non posso farci niente." 
"Ora ci vorrà coraggio per pagarlo." 
"Se ne avessi avuto in passato ora io non sarei neanche vivo." 
"Dovrebbe rallegrarsi, allora." "Impossibile. Avrei preferito mille volte non esserci, non vedere il tuo cuore appesantito, sapere che avevi negli occhi la consapevolezza fiera di chi ci ha provato e non la vecchia e insopportabile angoscia di chi è scappato." 
"Ho avuto paura." 
"Di un sentimento?" 
"Sembrava enorme. Ingestibile." 
"L'amore non ha forma. È nato non per essere gestito. Solo per essere vissuto o anche solo sentito. E tu non puoi pretendere di controllare tutto." 
"Pagando il conto che mi ha portato lei un giorno si estinguerà?" 
"Mai. Mi affievolirò come un odore, ma ti resterò attaccato in un angolo del cuore. E mio malgrado non ci sarà ormai più niente che tu possa fare." 
"E allora che senso ha pagare il conto?" 
"Il conto lo stai già pagando. E lo stai guardando in faccia. Lo paghi ogni volta che ricordi quelle parole, che le tocchi attraverso i fogli, che ti vengono in mente quei gesti elargiti solo per te. E ne senti la mancanza. Ogni volta che pensi a quella casa in cui non sei mai stata o a quello spicchio di mare che non hai mai guardato. E tutte le volte che ti dici 'ora è troppo tardi'." 
E allora mi si è conficcato nel cuore, come uno stiletto. Ho indossato la rassegnazione e chiuso la porta. Come faccio tutte le volte, inciampando negli 'avrei dovuto'.

Fiocco azzurro (9 ottobre 2013)

 Ciao, sono Alessandro. Detto Piripillo, il figlio di Teresa.

Sono nato venerdì 27 settembre alle 12.46 esatte. 
Alla nascita pesavo 3.540 Kg ed ero lungo 51 cm.
Sono un bimbo robusto, mica un elefante! Le guanciotte paffute che la mamma ha visto una volta con un'eco in 4D sono rimaste.
Ho deciso di rompere le acque alle 3 del mattino. Avevo deciso di nascere.
Proprio quella sera, attorno all'1.00, mamma aveva fatto notare a
papà che sentiva la mia testina dirtta sotto l'ombellico. Infatti mi ero spostato.
Il tempo di organizzarmi un attimo e la mamma ha sentito un 'pum!' nella pancia.
Ha fatto un balzo dal letto e si è ritrovata allagata.
Ha chiamato papà e gli ha detto: "Oh! Ho rotto le acque!"
Queste femmine si prendono sempre il merito.
Fatta una doccia e messe le ultime cose in valigia, mio padre ha chiamato un taxi.
Il tassista era più agitato di loro. Appena ha visto mamma col pancione ha detto: "Uh marò!"
Poi è stato tutto un susseguirsi di "Ma devo correre?", 

"Ma posso correre?", 
"Ma vi sentite male, signò?",
"Ma mica vi danno fastidio gli ammortizzatori?", 

"Vi metto un po' di musica?"
Quando siamo arrivati all'ingresso della clinica ha anche chiesto se doveva aspettare finchè non aprivano la porta o se
poteva andar via. Quando è partito e ha gridato "Auguri!" mamma si è messa a piangere.
Intanto io stavo vedendo già come dovevo fare per uscire. Non era una cosa semplice.
Non sapevo bene come fare, anche se conoscevo la strada. Sono arrivato a spingere finanche col guanciotto, infatti quando sono nato era un po' arrossato. 

Arrivata in clinica mamma è stata portata in sala travaglio, dove è stata
visitata da un'ostetrica di nome Federica e assistita da un'infermiera simpaticissima (Giovanna).
Sono capitato in clinica nell'arco di 48 ore di fuoco. Tutta Napoli era andata a partorire.
Tanto che non c'era posto e si prospettava l'idea di tenere mamma segregata in sala travaglio.
"Io dovrei restare qui tutto il tempo o su una barella e anche dopo? Tutto il tempo posso capirlo, ma dopo no! Se volevo essere trattata come carne da macello andavo al Cardarelli, mica venivo qui!" ha detto mamma.
"Signora, ma non ci sono posti!"
"Non me ne frega un cazzo! Vedete come dovete fare e datemi un letto!"
Insomma, la conoscete mamma no? Sapete com'è fatta.
Le contrazioni erano già iniziate da un po'. Dapprima leggere, poi sempre più forti ma comunque poco ravvicinate tra loro. Il ginecologo di mamma, l'uomo che mi ha fatto nascere, è arrivato alle 6.00 del mattino - mamma lo aveva chiamato già alle 3.00, quando io ho fatto il fattaccio - l'ha visitata di nuovo e ha notato che dopo già tre ore non c'era dilatazione. Siamo stati tutto il tempo sotto monitoraggio, io e mamma.
Ed è stato il ginecologo ad accorgersi che qualcosa non andava. Io provavo a gridarlo da dentro, ma non mi sentiva nessuno. Avevo il cordone attorno al collo con tanto di nodo. Ogni volta che mamma aveva le contrazioni forti io soffrivo e anche il mio cuoricino. Il papà è stato con la mamma tutto il tempo. Le dava forza e le ha infuso coraggio. E' stato davvero bravo. Alle 8.00 del mattino il ginecologo ha deciso definitivamente  per il cesareo. Ha evitato in tutti i modi di farlo perchè sapeva che mamma voleva il parto naturale, ma quando le ha
parlato di 'sospetto cordone attorno al collo', anche mamma si è convinta. 

Siamo entrati in sala operatoria alle 11.45 (mamma tutte queste ora se l'è fatte di travaglio, ma la dilatazione è arrivata solo a un cm e mezzo) e alle 12.46 sono nato io.
L'anestesista - quello che le ha fatto l'epidurale - è stato vicino a mamma tutto il tempo. E quando mi ha visto ha subito detto: "Uà! Che capucchione 'stu criatur! Bello!" 

E' stato lui a dire ai miei nonni e al papà che aspettavano fuori della mia nascita: "E' nato Alessandro. Pesa 3.540 ed è lungo 51 cm. E' bellissimo e sta benissimo."
Allora papà ha chiesto di mamma e il dottore ha detto che anche lei stava bene. E papà ha pianto tanto quando mi ha visto.
Quando sono nato sono stato portato subito vicino alla faccia di mamma e lei mi baciava tutto e non ci ha fatto nemmeno caso che ero tutto sporco.
Poi mi hanno lavato e mi ci hanno portato di nuovo. Il giorno dopo mamma era già in piedi perchè aveva pensato che se si fosse lasciata andare, al nido io non l'avrei sentita vicina. E' scesa ad allattarmi ogni quattro ore e piano piano
abbiamo preso confidenza. Da lunedì siamo a casa tutti e tre e ci stiamo conoscendo. 

Mamma ha già assorbito tutti i miei ritmi. Il papà l'aiuta tanto con il cambio pannolino, coccole ecc.
Io ho solo una settimana, ma da un paio di giorni mi guardo attorno e osservo questo nuovo mondo pieno di colori.
Sono piccolo, ma so che devo ringraziare tanto il ginecologo di mamma. 

Se non fosse stato per la sua lungimiranza, forse, a quest'ora, io non c'ero.

03:35 - No comments

Un abbraccio lungo un anno (8 settembre 2013)

 Nell'arco di quest'ultimo anno ho fatto conto di essere stata strappata a te da un soffio di vento. Che è arrivato all'improvviso, mentre ti tenevo la mano come se avessi voluto essere sicura che non scappassi. Perchè ho sempre avuto paura di vederti lontano, molto più che di non vederti affatto. Come se avessi avuto l'autorità di impaccottare le tue ali e lasciarti coi piedi per terra, accanto a me. Si diventa egoisti, quando si vuole bene a qualcuno. E questo è uno dei miei sbagli. Quella mano non la stringo, la tengo sperando ogni giorno di ritrovarla nella mia. Vivo con la paura di non vederla più, senza capire prima che non puoi temere l'abbandono se l'affetto è sincero. Ed è proprio questo il punto. Ho subito abbandoni da chi non avrei mai creduto, da mani che neanche tenevo tra le mie, sicura che ci sarebbero sempre state. Quando mi ha lasciata la tua allora veramente ho sentito freddo. La sua assenza è stata un tripudio di ricordi, di cose fatte insieme, di risate, giochi, come quando ti rendi conto che l'infanzia è finita e devi crescere. E io così ho fatto. Ho indurito e incassato. E fatto finta di niente, come se il tatto delle tue dita non l'avessi mai conosciuto. Ho detto bugie a me stessa mentre vivevo, continuavo a ripetermi che era solo una mano. Quando poi mi sono ritrovata al più grande giro di boa della mia vita, ho cercato di nuovo quella stretta delicata. Ma mi sono resa conto che continuare ad avanzare senza, avrebbe voluto dire odiare il vento per tutta la vita. Odiare i ricordi e pensare che quel sentimento che va oltre l'amore non esiste. Non avrei potuto tollerare un altra disillusione. Anche perchè un filo sottile che mi teneva legata a te ancora c'era e l'ipocrisia non fa parte del mio essere. E allora con gli occhi chiusi ho sentito la tua mano dietro la mia testa in quell'abbraccio che ha riempito un anno intero. Questa è una cosa che insegnerò a mio figlio: possono trascorrere silenzi insopportabili, mesi o anche anni di vuoto agli occhi. Ma quando sei davvero legato a qualcuno, un sorriso è poi tutto quel che basta.

03:31 - No comments

I supereroi esistono (9 ottobre 2013)

 Io vorrei conoscerlo il tizio che ha detto che i supereroi non esistono.

Ci vorrei parlare e vorrei chiedergli se, quando l'ha detto, aveva già visto una donna diventare mamma.
Perchè tu, femmina, sai di cosa sto parlando.
 

Acquisisci il super potere vestirti in maniera decente in un terzo di secondo e senza neanche l'ausilio di una cabina telefonica.
Quello di afferrare al volo gli oggetti prima che cadano al suolo.
Diventi capace di muoverti al buio, evitando gli ostacoli.
E se proprio urti il mignolo del piede destro contro una gamba del tavolo, sei ormai diventata capace di bestemmiare e soffrire in silenzio.
Hai preso talmente tanta dimestichezza col pargolo che lo allatti reggendolo col braccio destro e con la mano sinistra fai colazione, pranzo, cena.
Ti lavi pur non sentendo il rumore dell'acqua che scorre, chè se lui si sveglia in un nano secondo sei pulita, asciutta, profumata e pronta a fare la mamma.
Rifai il letto in 3.3 secondi netti. Roba che manco batman quando s'incazza.
Sei capace di lavare i piatti e metterli nello scolatoio senza far rumore, neanche fossero piume.
Dimenticavo poi la capacità d'incenerire con lo sguardo chi ha disturbato il suo sonno. Roba che i raggi laser non sono un cazzo.
I 'posso prenderlo in braccio?' vanno sempre evitati a una neo mamma che ha il piacere di vedere l'inquilino tranquillo nella sua culla. Salvo il desiderio di ricevere un rifiuto o vedere una donna con le antenne in testa.
Riconosci il suo modo di piangere. Parli un buon livello di bambinese.

Con una mano accarezzi il pupo, con l'altra i cagnoni di casa che non vanno trascurati.
Sei capace di vivere un post operatorio (con buona pace dei 'non ti devi stancare' detti dal ginecologo) avendo il pieno comando sui dolori addominali, isolandoli quasi dal resto del corpo.
Dormi con gli occhi aperti - o anche chiusi - quando di notte il pupo si sveglia affamato.
Cambi un pannolino in 5,2 secondi. Comprese coccole qualora il piccolo, piangendo, decidesse di andare oltre i decibel consentiti per legge.
Hai avuto la capacità di "svegliarti" alle 4.00 del mattino, a poche ore dal cesareo, chiamando l'infermiera per dirle di toglierti il catetere: "Mi voglio alzare dal letto." 

"Vengo alle 6.00" 
"Vieni alle 6.00 meno dieci." , oltre ad andare in bagno da sola una volta alzata.
Provi compassione per chi prova compassione per te. Ma, a differenza di prima, eviti di farglielo sapere.
Acquisisci una memoria e una pazienza di cui non ti credevi capace. E le sfoderi ogni giorno, senza neanche ormai rendertene conto.
Tante cose che magari prima avrebbero potuto ferirti o portarti ad imbracciare il fucile, ora sono fumo.
Perchè l'unica aria che vuoi respirare è lui. Lo stesso uomo che, speri, un giorno, non spezzi il cuore di un'altra donna.

03:29 - No comments

Spontanea...mente. (8 febbraio 2013)

 «Eppure io sono convita che nessuno è pronto per la felicità. La si rincorre proprio perché sappiamo che non la raggiungeremo mai. Proviamo a immaginarla come una donna che incarna il concetto di bellezza. Ne avremmo quasi paura, perché subentrerebbe la responsabilità e quindi la possibilità di deluderla e perderla. E’ incredibile quanto aumentino le possibilità di perdere qualcuno, tanto più si ha questo qualcuno nel cuore. I modi di fare non sono mai spontanei. Vengono tutti dettati dalla paura ed è sbagliato. Come se già un’umanità spontanea, e magari ci fosse più spesso, non bastasse. E poi la felicità è più comodo continuare a cercarla, sostenere di aver fatto di tutto per afferrarla, far finta di non averla mai guardata in faccia. Eppure quante volte ci ha toccato la spalla e noi l’abbiamo scacciata via col soffio dell’orgoglio o anche solo per paura. La verità è che oltre a non essere pronti, manco ce la meritiamo. Abbiamo dimenticato l’importanza dell’entusiasmo, la corsa nella sua ricerca. Tutte cose che ci sfuggono, troppo concentrati come siamo sul fine ultimo. Il percorso in sé, non è già considerabile una piccola giostra personale? Non è la meta, è il viaggio. E’ la camminata, come la si affronta. La possibilità di lasciare il proprio profumo lungo il percorso. E’ tutto quello che fai per metterci la tua firma sotto, alla fine. E poi se ti ritrovi felice, tutto d’un botto, e lo stato d’animo persiste, a un certo punto vuoi pure scollartelo di dosso. Diventa troppo dolce, un’abitudine e non lo apprezzi più. Perché la ricerca è finita e quindi non ne vale più la pena. Pensarlo soltanto non ti crea angoscia? Pensare al concetto del ‘non ne vale la pena’, intendo. Come quando percorri una strada, fai tanto per arrivare alla fine e poi ti ritrovi a dire: "E quest’era?"    

Poi impara: le persone hanno paura dei felici. Come se non fossero parte della stessa umanità. Sarebbero capaci pure di ghettizzarli. Non a torto, se ci rifletti. I felici non hanno scopi. Non più, almeno. Sono quelli che hanno corso troppo veloce per restare col resto del mondo. Che non hanno badato a una mano tesa lungo il cammino o che hanno fatto i passi a quattro a quattro, affannando. Lo so che quando domani ti sveglierai, dopo questa chiacchierata, non sarà cambiato niente e continuerai a sperare di acchiapparla e trattenerla, la felicità. Ma la vita che c’è attorno? A lei chi ci pensa? E poi si deve arrivare lontano, nella vita. Non necessariamente in alto. Ma lontano. C’è differenza. Chi vuole arrivare in alto, molto spesso fa poco o nulla e attende. Aspetta che qualcosa accada senza muovere le speranze. Le lascia macerare come si fa con l’uva.  Solo che inacidiscono, a lungo andare. Le speranze hanno tutte una data di scadenza. Voi non lo sapete, ma ce l’hanno. E quello che dovreste fare prima di metterne una in cantiere, è controllarla. La data, dico. Altrimenti vi ritrovate dopo anni sempre con le stesse, ma che hanno fatto la muffa. E su una speranza ammuffita non investirebbe nessuno. Ti pare? Tornando al concetto di felicità, ne sono convinta più ne parlo, nessuno è pronto. Viene propinata come una sorta di biglietto della lotteria. E per tutta la vita non si fa altro che aspettare l’estrazione. Ma quando poi arriva? Che ti ritrovi in mano? Accanto, chi ti trovi? Chi ne vuole un pezzo, ecco chi. Allora tu la concedi, convinta che ne hai da vendere. Ma a furia di farlo e di regalarne troppa, viene trattata come un avanzo che hai nel piatto. La vera felicità, quella che non ti fa sentire o essere solo, la si incontra quando si fa spallucce rispetto al suo concetto stesso. Quando ti guardi allo specchio e pensi che sostanzialmente di questa femmina che quasi non riusciresti a guardare tanto è bella, non te ne frega un cazzo. Perché stai bene come stai. Con il poco, con il molto, con i difetti tuoi, con chi ami, con i problemi da risolvere, con la corsa estenuante nonostante tutto. Ma conservi ancora la capacità di annusare un fiore o gustare una tazza di tè. Quella è la felicità. Guardarsi un attimo dentro e provare il privilegio di mordere i giorni. Ho sempre pensato che solo così si arriva lontano. E alla fine si può pure dire con strafottenza che la vita te la sei mangiata e, visto che le hai dato il sapore che volevi, t’è pure piaciuta. Ma ti sei addormentata?»
Non dormivo. Anche se ero stesa sul divano con la coperta addosso e gli occhi stanchi. 
«No, non dormo. Figurati. Ti ascoltavo, come faccio sempre.» Risposi al mio ALterEgo, che non sia mai le dici che non l’hai seguita per tutto il tempo, s’incazza pure. «Quindi secondo te il concetto di felicità è una truffa?», le chiesi.

«No, non è una truffa. E’ solo un modo di dare uno scopo a esistenze inutili di per sé, l'illusione per antonomasia. O un contentino a chi non ha la capacità di apprezzare. Se uno cominciasse a capire che ogni giorno, per una qualsiasi cosa bella, la felicità ci tocca la spalla, non smetteremmo certo di cercarla. Ma le avremmo di sicuro già visto il colore degli occhi.»

03:26 - No comments

L'arte dell'approssimazione (18 febbraio 2013)

 Mi piacerebbe dirti che. Sapere se. Andare oltre tutto quel che di.

Fare in modo da non.
Però guardandoti in. Non come sempre è. Perché tuttavia so che sarebbe.
Lo sbaglio, vedi, è sempre stato quello di aver detto le. Sì, a metà.
Come ogni cosa. La meraviglia dell'approssimazione.
Dico. Non dico.
Errore.
Non bisognerebbe mai rinunciare a. E lasciare solo che l'altro. Varrebbe molto più la pena. Se infatti io ti avessi detto quanto eri. Se non fossi scappata. Ora, forse. Intanto ora è tardi.
Ci sono cose nella vita che capitano. Quando neanche credevi che.
Se mi avessero detto che ora sarei stata. No, non c'avrei creduto. Riuscivo a vedere solo un noi che ti riguardava. E invece.
Forse è meglio. Magari ci saremmo parlati a metà per un tempo che. Intollerabile, non so se ne convieni.
Una persona va. Ogni giorno. Non basta caricarsela nel. E se adesso potessi chiamarti e dirti che. Ne resteresti stupito. Anche se lo sai.
Diverse persone che leggeranno penseranno che. Con presunzione.
Spero solo che tu stia.
Io faccio. E me la cavo.
È umido, fa freddo.
Ma è febbraio. È normale, dicono.
Eppure c'è stato un tempo in cui.
Te ne ricordi.
La Primavera a febbraio.

Una volta l'anno (21 dicembre 2012)

 Caro Babbo Natale,

devo ammettere che è più comodo credere in un omone vestito di rosso, bonaccione e con la barba bianca, le gote rosse e magari la passione per i cicchetti anzichè cedere alla fede per un ingegnere laureato alla Bocconi, ma che di organizzativo ha ben poco. 
Molti lo chiamano Dio, forse esagerando. Il realtà è solo una speranza. 
Ecco, se io dovessi darle una forma, sarebbe la tua. E' una bella immagine quella di un vecchio energico che guida una slitta voltante. Ben più rassicurante di uno seduto in poltrona che fa solo lo spettatore. Adesso io dovrei chiederti qualcosa, come fanno tutti i bambini, per Natale. E non c'è niente di più imbarazzante del ricordarsi di qualcuno solo quando se ne ha bisogno. Ma tant'è. La faccia tosta è necessaria, quando si ha bisogno di aggrapparsi a una speranza. Io non lo so cosa fai in tutti gli altri mesi dell'anno, quando non lavori. Mi piace pensare che te ne stai spaparanzato su un'isola semi deserta e assolata a bere mojito da una mezza noce di cocco attorniato da ragazze più giovani di trent'anni. Che leggi i giornali, i libri, ma guardi pochissima televisione. E ti riempi la pancia di risate nell'osservare l'umanità che non bada più ai sogni, che evita di lasciarsi andare, che non da peso alle emozioni. Che lotta per un carrello della spesa, litiga furiosamente per un posto auto e poi si commuove per le vittime di un terremoto. Lo so che ridi, è naturale. 
Anche perchè quella stessa umanità è ambivalente, è come guardarla da una lente che ti consente di vederne due. Come se poi una sola non bastasse. Da un lato c'è quella che è presente nel corso dell'anno. Ipocrita e saccente. Dall'altro, quella (forse) più vera, che non si limita al buongiorno e al buonasera e lascia fiorire un cuore grosso così. Vorrei sapere tu a quale delle due versioni credi. Io resto un'ottimista e nonostante tutto, prediligo la seconda. Avrei potuto spedirtela, questa lettera. Ma sarebbe finita su una montagna di richieste di giocattoli. E, detto tra noi, per una donna non ricevere l'adeguata attenzione è piuttosto frustrante. Tutto quello che ti chiedo, è la capacità di godere del tempo prima della sua fine. Un po' come tentando di fare con i miei affetti più cari. Ogni giorno in più con loro è una conquista, una sorta di premio che mi porto a letto e conservo sotto il cuscino. Ogni volta che sorridono (lo fanno a modo loro, certo, ma impari a rendertene conto), sento il mio cuore scoppiare. Ecco, tutto quel che vorrei per Natale è la passione per la vita stessa, ogni giorno. E anche la forza, la stessa che ha avuto una rosa che era sbocciata nel mio giardino a Novembre. Ha superato tutto. Il primo freddo, la pioggia battente. L'ho vista assaporrare i raggi del sole quando c'erano e piegarsi al vento. Ha fatto di tutto per restare viva. Quel che mi serve, è tutta la forza di quella rosa. Sempre. Sono tuttavia consapevole del fatto che mi hai già dato tanto. C'erano ben altre cose che avrei dovuto affrontare per un pezzo del mio cuore, che è stato malato e stanco. Che adesso se la dorme sulla sua cuccia, aspettandomi, come fa ogni giorno. E che ho corso il rischio di non vederlo più. Non credo esista sollievo più felice del vedere chi ci è caro ricominciare a vivere con tutto l'amore di cui è capace. E tu questo me l'hai già dato. Ma la paura di perdere la consapevolezza che tutto quel che di bello ho, un giorno finirà e comportarmi di conseguenza, c'è. Vedi, noi umani siamo bislacchi. Abbiamo la costante paura di perdere qualcosa: le chiavi della macchina, l'ombrello, i guanti, le chiavi di casa. E non ci rendiamo conto che quel che dovremmo temere di perdere è la presa di coscienza che la vita è una soltanto. E quindi ci arretriamo tutto. Sentimenti, azioni, lacrime e gioie. Come se le occasioni tornassero sempre, ciclicamente. Come se avessimo sempre diritto a una possibilità che va oltre le nostre stesse capacità.
Cerca di fare in modo che io riesca ad apprezzare tutto, prima che sia troppo tardi.
Perchè solo così, se avrò modo di guardare i miei capelli bianchi, potrò dire che alla mia vita ho dato un sapore. E che ho fatto meglio che potevo per farla assaggiare anche a chi mi ha circondata.

Con affetto.

03:11 - No comments

Tweet hungry, tweet choosy (15 novembre 2012)

 Si potrebbe riassumere tutto in una frase che ho letto su Twitter tempo fa e che venne scritta da una delle pochissime persone che incontrerei nella vita reale: @ziacoca


 "Il numero di followers non è proporzionale al numero di neuroni."

E' tuttavia triste constatare come gente che davvero meriterebbe attenzione, viene invece oscurata da altra che, gira che ti rigira, scrive sempre le stesse cose. Concetti triti e ritriti che ormai non servono neanche più a condire il brodino invernale della sera. Quello che è quasi sconvolgente è che quelle stesse parole, quelle che sanno di muffa rattrappita, vengono anche riprese da colleghi e spiattellate a comodo su giornali cartacei o meno. Il meccanismo che si crea è qualcosa di stomachevole. L'autore del tuitt, quando scrive qualcosa che tappa un buco altrimenti vuoto sulla pagina di un settimanale o un quotidiano, si sente osannato. Crede di essere diventato indispensabile in qualsiasi Timeline. E effettivamente, cosa ancor più alienante se vogliamo, la gente lo segue. Vede il numero dei followes aumentare e, come pecora, si unisce al gregge. Forse pensando che se tutta quella gente segue tizio, è perchè tizio scrive cose interessanti. Tutto sulla base del concetto italiano "lo fanno tutti, lo faccio anch'io." Riflettere con la propria testa costa troppo, eppure è ancora esentasse. Ho letto persone meravigliose, su Twitter. Gente che non incontrerò mai, ma alla quale auguro una silenziosa buonanotte ogni sera, quando spengo il Pc o metto in stand by il cellulare. Nonostante la loro palese bellezza di cuore, il loro intelligente sarcasmo e tanta raffinata acutezza, non vengono prese adeguatamente in considerazione. E' un peccato pensare che la folla ha gli occhi oscurati da qualche morto di followers che se venisse letto ogni giorno, con la dovuta e critica attenzione, si rivelerebbe un palloncino sgonfio. Pregno di non so neanche cosa, ma che puzza di chiuso. Da Twitter si vede molto dell'Italia di oggi. Ma se manca la meritocrazia finanche su una puttanata come Twitter, come vogliamo sperare vega esercitata per l'intero Paese? 

I tuitt che fanno da tappabuchi (perchè fanno solo da tappabuchi, è inutile illudervi di essere il nuovo Montanelli. Se lo foste, non stareste su Twitter.) sono scritti sempre dalle stesse persone. Mai una volta che Francesca Castellano infili nel suo Twittgì su Panorama gente come @GigiGaudiano@Zziagenio78 tanto per citarne un paio. 
Mai una volta che abbia letto un'intervista di Andrea Delogu su Panorama fatta a un qualche povero Cristo che di followers magari ne ha 48, ma che scrive la verità, che magari ha realmente una vita interessante, e non tenta (e questa è una cosa che mi fa veramente incazzare, ma che su Twitter accade) di far credere alla gente di essere un giornalista quotato che dedica briciole del suo tempo libero al social network. L'unica intervista che ho letto su Panorama e che davvero è stata degna di nota, l'ha scritta @stellastrala. Un social è un gioco fine a se stesso, ma è anche una finestra sul Paese. 
Una sorta di squarcio che, in questo caso, mi fa capire che siamo pecore. 
E che la merda, ce la meritiamo tutta.