lunedì 4 maggio 2020

I ricordi e la polvere (11 ottobre 2012)

Ti ricordi quando ti dissi che ero stanca e tu mi prendesti la testa tra i sogni, per farla riposare? 
Non sono mai più riuscita ad apprezzare lo stupore dell'incapacità di dormire. 
E ti ricordi quando andammo nella pace della montagna, ad ascoltare suoni sconosciuti alle città rumorose, alla gente presa da se stessa? Raccolsi un fiore. E tutt'ora mi fa da tenda tra la luce delle parole di un libro e il mondo esterno e saccente.
E poi quando corsi per venire a guardarti una volta soltanto, te lo ricordi? 
Ebbi il cuore in gola che batteva talmente forte da farmi avere quasi paura di morire. 
Di tutte le speranze spese a perdifiato, come gambe veloci l'una davanti all'altra. Tutte le illusioni, i sogni ad occhi aperti di cui abbiamo riso davanti a un bicchiere di desideri. 
Forse neanche questo riesci a ricordare. 
E ti ricordi quando mi regalasti la tua musica, in un cesto fatto di nodi e scampoli di vita passata? 
Lo conservo in una stanza buia, perchè alle cose davvero belle la luce non è necessaria. 
Quando mi hai abbracciata, stretta tanto da darmi tutta l'aria che mi è necessaria, te lo ricordi? 
Non ho più respirato a fondo, mai più avuto così tanta vita nei polmoni.
Quando abbiamo vissuto una vita di fragole, fiori e trasparenze d'acqua, tu non c'eri. 
Il mio cuore era solo, un avido, audace sognatore che combatteva contro silenzi reali e insopportabili. 
La mia anima gli somiglia.
E allora io costruisco un castello di ricordi inesistenti, anche troppo grande per me sola. 
Quando è sera e mi rifugio nella sua stanza più piccola, ci sono tutte le parole che non ti ho detto a farmi compagnia, a parlare con me con la voce del mio cuore. 
Mentre il coraggio, il mio, vecchio e stanco, sbuffa sotto la sua morbida barba bianca e mi guarda con la coda dell'occhio. 
Il coraggio che non hai il coraggio di esercitare, non da mai soddisfazione. 
È arrabbiato, deluso. Io mi vergogno ogni sera. Tutte le volte che lui c'è quando parlo con le pareti di casa fingendo sia il tuo petto, o tutte le volte che le parole si bloccano in un rigurgito di cuore, in un sospiro nervoso di egoismo. 
Poi arriva la paura che m'interrompe i sogni. È ben vestita e ha la faccia arcigna e sempre giovane. Ride, mi fissa con impertinenza. M'innervosisce. Ma a lei i miei sogni non piacciono e l'unico modo che ho per cacciarla via è ovattarmi in ricordi che non ho, ma ho saputo costruire dal niente. 
È solo in quel brevissimo istante che il coraggio mi guarda felice, perché ho dimostrato la sua concretezza. 
La paura va via stizzita, ma sappiamo entrambe che ritornerà ogni volta che non avrò fegato di dirti che sei qui con me, anche ora, che sei lontano.

Ciò a cui nel cuore ben poco assomiglia (7 febbraio 2012)

Non avrei potuto scriverlo in pochi caratteri o in uno spazio angusto. 
Che poi, a me, gli spazi stretti non sono mai piaciuti molto. 
Vedi, il punto è molto semplice. Ma articolato come un nodo da sciogliere. 
Non è tanto chi mi ha fatto così male da scalciarmi sullo stomaco come un mulo. Ma perché. 
Perché, visto che avrebbe solo dovuto proteggermi, abbracciarmi quando ne avevo bisogno, esserci anche in silenzio, anche da lontano. 
Avrebbe dovuto farmi vivere sapendo che era lì, per me. 
Ad accogliermi. Come una carezza sulla testa o una coperta da riscaldare col proprio corpo. 
Lei doveva esserci. Per scacciare via i cattivi pensieri. Non per cacciare via me dalla sua vita. 
Non per mettermi le mani addosso e scaricare come un macigno sulle mie spalle i suoi fallimenti. 
Lei doveva essere viva per me. Perché non le ho chiesto io, di vivere. 
E invece ieri mi ha lasciata cadere. 
Sono rimasta aggrappata al ciglio per troppo tempo, a parlare con lei che invece su quello stesso ciglio ci stava comodamente seduta. A fumare e guardare la Tv. Lei era al sicuro e questo mi bastava. Le avevo creato io, quel rifugio. L'ho voluto, l'ho pagato col sangue e l'amore. Solo per lei. L'ho mantenuto.
Era il saperla al riparo da qualsiasi problema, che mi manteneva in equilibrio. 
E non mi aspettavo di certo che a schiacciarmi le nocche sotto i tacchi, sarebbe stata proprio lei...
Però l'ha fatto. E non mi ha trattenuta. Anzi, mi ha guardata precipitare come se stesse osservando la scena di un reality pulp e di seconda serata. 
Quando mi sono rialzata, ho cercato di farla ragionare. Ho tentato disperatamente di farle capire che tento di aiutarla, per quanto posso. E invece lei ha preso la carcassa che restava del mio affetto filiale e l'ha scaraventata di nuovo via, come se fosse stato un rifiuto maleodorante e datato. 
Avresti dovuto vedermi, sembravo una bambina col mal di gola che l'unica parola che sa dire quando sta male è: "Mamma..." 
Non ripetevo altro. 
Ma non parlavo con lei. Parlavo con quel che credevo lei fosse per me.
E allora ho guidato fino a sfiancarmi, come se avessi avuto una meta da raggiungere o qualcuno da cercare. Con quelle parole che mi risuonavano nella testa, senza interruzione. 
Si da troppo per scontato, negli affetti. 
Se un giorno mi avessero detto: "Tua madre una sera ti dirà di andartene e non farti più vedere." forse avrei riso con un po' di angoscia. Ma non c'avrei creduto completamente.
Perché davo appunto per scontato che lei si sarebbe comportata da madre e non da essere umano. E' vero, hai ragione. Una madre è un essere umano, ma riesce a mettere da parte il proprio ego, i propri egoismi e a tener conto del fatto che anche una figlia, è un essere umano?
Ora tutto quello che vorrei dirle è che mi dispiace. Ma che non ho potuto far di più, fino ad ora.
Ho provato, ma ho fallito.
E che se in quel rifugio è entrata qualche goccia d'acqua per una crepa al soffitto della quale non mi sono accorta, mi sento pericolosamente in difetto.
Con la consapevolezza che, ora, non ho veramente più nessuno, al mondo.
Chi banalizzerà penserà che si tratta di una bufera che lascia del fango per terra e un cielo chiaro da guardare. Ma chi subisce se le porta nello stomaco, quelle lame. 
Che un giorno faranno ruggine, ma saranno sempre lì. 
A ricordati che anche chi credi debba amarti gratuitamente, si assenta. 
Ed è quell'amore che ancora provi, che non sopporti, perché se riuscissi ad odiare con cinica indifferenza sarebbe decisamente più semplice, ad averti disarmata. Ad averti portata a subire, a guardare con sconcerto chi ti graffiava il cuore. 
E allora decidi che quel soffio di vento resta l'unica cosa dolce vissuta ieri. 
E gli vai incontro, lasciando che ti accarezzi la faccia.
Ed è l'unica compagnia capace di rassicurarti. 
Paradossalmente così vicina, da sembrare l'abbraccio che ieri non hai avuto.




giovedì 23 aprile 2020

Il disinformatico (3 febbraio 2012)

Ieri, secondo giorno di febbraio. 

«Terè!»
Quando mio padre esordisce una telefonata così, senza dire una cosa tipo: "Uè figliabbella!" oppure "Bbell'appapà!", ho fatto qualcosa. E sinceramente, mai come ieri mattina, ero convinta che fosse arrivata una multa, che mi avessero acchiappata gli autovelox sull'Appia, che fosse giunto tra le sue mani non so come un avviso di garanzia, una condanna in contumacia o che mi fossi scordata di pagare qualcuno.
«Paaaapiii...!», ho risposto. Il finto entusiasmo va esplicato strascicando rigorosamente l'ultima vocale.
«Aiutami, sto nella merda!»
Paradossalmente mi so' calmata. Sì perchè se nella merda ci stava lui, non ci stavo io. Cioè se aveva detto così era sicuro che non mi aspettava una mazziata...
Eh ma che volete da me, quell'è un'equazione. E chi si salva è il mio deretano. Certo, non cosa da poco...
«Ma che è successo?»
«Agg' fatt'un bordello!»
«Ma ti hanno acchiappato due femmine con un'altra e hai abbuscato?»
«No, peggio.»
«Ti hanno fatto firmare un foglio in bianco e poi sopra ci hanno scritto che sei un berlusconiano e lo sarai fino alla morte?»
«No, no!»
«Ti hanno detto che ti devi far tagliare le palle, papà?»
«No...» ha risposto lui abnegando qualsiasi motivo grave e realistico di depressione, con voce depressa.
A quel punto, il principio d'infarto che mi stava cogliendo, s'è sciolto nell'acido. Qualsiasi cosa fosse successa, escludendo quelle succitate, era reparabile.
«Che è successo, allora?»
«No, ma chill' è venuto uno che lavora qua - Per chi non lo sapesse, mio padre fa le pulizie al centro direzionale di Napoli. - e mi ha chiesto di pulirgli la tastiera del computer quando avevo due minuti. Ma chella tastiera facev' veramente schifo. Cioè i tasti non si vedevano tanta era la zuzzimma che ci stava sopra. Mò siccome era una tastiera vecchia, che era prima stata usata da un altro, poi da un altro, poi non so da chi e poi da lui, io so che questi non hanno il tempo nemmeno di andare a pisciare e quindi ho pensato che chiossap' quante briciole e fetenzia ci stavano, in mezzo ai tasti...»
«E quindi?!», ho domandato terrorizzata ben sapendo cosa accade a una tastiera datata.
«L'ho arrevacata!»
«Embè?»
«Da dentro ci sono usciti Pasqua e Natale del '92. Pure nu piezz' e capretto, la verità. Ma il problema è che si sono staccati tutti quei sfaccimma di tasti! Solo pochi so' rimasti azzeccati! - Intanto io cominciavo a mettermi le mani in fronte e chiudere gli occhi - E mò non so come acconciarla. Non la posso nemmeno ammacchiare perchè me la vedrebbero e chist' tra un'ora sta un'altra volta qua a va trovando la tastiera pulita. Io non solo non gliel'ho pulita, ma ce l'agg' pur' scassat'!»
«Stai calmo.» ho detto mentre mi avviavo per raggiungerlo. Tanto la mia mattinata e tutti i progetti che avevo, ormai, erano andati a puttane.
«Si, ma quello poi io pensavo che tu li conosci a memoria le tastiere, quindi potevi venire qua e l'aggiustavi tu.»
«Papà io le tastiere non le conosco a memoria. Ancor di più se consideri che spesso ognuna è diversa dall'altra. Io sto venendo. Ma tieni conto che sto a piedi. La moto l'ho lasciata a Formia - errore del quale mi pentirò per il resto dei miei giorni - e la macchina non la schiommo nemmeno se mi danno una cosa di soldi. Quindi devi aspettà. Tu intanto cerca di trovare una tastiera come quella, così quando arrivo la rimettiamo a posto prima.»
«Ok, ma fa ambress!»
Partendo dal presupposto che gli autobus a Napoli non passano mai, che in quel momento non ero nè moto nè auto munita, ho realizzato in un attimo di lucidità che non mi trovavo eccessivamente lontana dal Centro Direzionale e che, senza intalliarmi, avrei potuto raggiungerlo a piedi. E così ho fatto. Tempo un quarto d'ora scarso e stavo lì, con lui. A fare il funerale con gli occhi alla tastiera scassata. C'erano anche le briciole di pane, sulla scrivania, a dare l'ultimo saluto alla compagna di una vita. Erano delle signore, quelle briciole. Non un lamento, non un pianto fastidioso. Rispettavano il dolore di tutti. Tutti erano in cordoglio. Tranne Giggino che bestemmiava come un animale: «Mannagg' a maronn a me e a chi m'ha fatt' fa!»
«Ma l'hai procurata un'altra tastiera  per fare il confronto?», ho chiesto come se avessimo dovuto fare l'analisi del DNA sperando di trovarne uno diverso e quindi sgamare l'assassino.
«No, macchè! Acconciala appapà, jà!». Quando me l'ha detto per l'ennesima volta stava per piangere.
Non mi sono abbandonata ad un sconfortante maronn' e mò come faccio? perchè altrimenti mio padre si sarebbe dato sicuro capa e muro. Ma mi sono ricordata che a casa, nascosta da qualche parte, dovevo avere una tastiera identica. Avete presente quelle tastiere vecchie, bianche, coi tasti che quando li pigi nulla hano di futuristico? Sì, anche dal rumore che fanno i tasti pigiati ti accorgi se la tastiera è vecchia o no. Almeno nella mia testa. L'ho detto a Giggino, di averne una uguale. Il suo volto si è illuminato, come se avesse visto un'entità celeste, avesse vinto una cosa di soldi o avesse scansato una saittella per non inciampare. A volte a Napli le saittelle sono il demonio. Oratutto a posto, direte voi...E invece le parole più preoccupanti che ho scritto fino ad ora sono state nascosta da qualche parte. Perchè io l'avevo. Sapevo di averla. Ma non sapevo dove minchia fosse. E questo remava non poco a mio sfavore visto che avevo i minuti contati. 
Ho evitato di dirlo a Giggino. Ormai nei cazzi storti mi ci ero messa da sola. E da sola dovevo uscirne.
«Vall'a prendere, vien' cu mme!», non ha fatto neanche in tempo a finire la frase, mio padre, che già stavamo giù a corrompere la guardia giurata con caffè e cornetto affinchè mi prestasse un attimo la moto per correre a casa. Arrivo, saluto i quadrupedi festosi e comincio a cercare. Mi ha detto veramente culo perchè l'ho trovata praticamente dopo cinque minuti. Candida, anche se non illibata, non ha opposto resistenza quando l'ho infilata dentro una busta di plastica e trattenuta come ostaggio per la mia salvezza. Raggiungo nuovamente mio padre, consegno la moto al legittimo proprietario che stava già preparando corda e scannetiello per impiccarsi, presumendo un incidente e la sua motocicletta in frantumi. Del mio cranio si preoccupano in pochi.
Risalgo da mio padre che intanto stava purificando l'ambiente dalla seccia con l'incenso e la scatolina di latta. Gli mancavano solo gli occhiali tondi neri, il bastone e lo scartiello, la verità. Metto la tastiera integra sulla scrivania, ammacchio quella scassata nella busta,  e nell'istante in cui mio padre prende la tastiera che gli ho portato decidendo di darle una lavata di faccia, entra in quella stanza la grandissima lota che aveva chiesto a Giggino di pulire quello scempio sul quale poggiava i polpastrelli. E trova patemo co' 'sta tastiera in mano e il panno, dall'altra parte. Manco saluta, s'avvia convinto verso l'aggeggio ed esclama: «Maronn' Pinto! - guardando mio padre - Lo sapevo che solo voi potevate tanto! E' tornata nuova! Non so come ringraziarvi! Vi posso offrire un caffè?»
Mio padre, che a quel punto altro non poteva fare se non lo splendido, s'è abboffato a tipo gallo cedrone. Contento e pieno di sè. Anche se non aveva fatto un cazzo. «Grazie, grazie.», ha detto sorridendo a 344 denti.
Intanto io cercavo di nascondere la busta che conteneva il cadavere della tasteira precedente.
«Abbè, papà. Io mò me ne vado.»
«Uh Pinto - fa il madonna - Ma questa è vostra figlia?»
Mio padre annuisce.
«Permette?» e mi porge la mano come per stringere la mia. 
Scendiamo, prendiamo il caffè - come se l'adrenalina che avessi ancora in corpo non bastasse - e cerco di dileguarmi in fretta dalla morsa di domande che quel 40enne cercava di cingermi tra mani e piedi. 
Mio padre capisce e all'orecchio mi fa: «Chist' è separato. Ma sta pieno di soldi e figli non ne tiene.», raggelandomi in un imbarazzo che manco vi sto a raccontare. 
Mentre il tizio continuava a squadrarmi, ho glissato qualsiasi spunto di conversazione dicendo: «Senti papà io adesso me ne vado che c'ho da fare. Ti chiamo in questi giorni.»
Saluto l'ignaro possessore della mia vecchia tastiera, abbraccio mio padre e mi avvio verso l'uscita con le mani in tasca.  
Più o meno un'oretta dopo Giggino mi chiama: «Ti ho fatto fare una ricarica al cellulare di 10,00 Euro dal terminale, appapà, l'hai ricevuta?» In effetti mi era arrivato un sms, ma non lo avevo ancora letto. «Sì, papà. Grazie.» 
«Eh, mi pare il minimo. Te lo fatta fare da chillu strunz' che s'è pigliato la tastiera tua.», ha detto con voce soddisfatta come se lo avesse pigliato per il culo una seconda volta.
«Maronn' papà. Ma non potevi andare da qualcun'altro o in tabaccheria?»
«Uhggesù e perchè? Poi che sfizio c'era?»
«C'era lo sfizio che quello mò non aveva il numero mio!»

No, ma io se rinasco faccio il fravecatore...










lunedì 13 aprile 2020

Artetecosa...mente (30 gennaio 2012)

Oggi mi sento come quella che.

Stamattina mi sono sentita.

Adesso sto un po'.

E stasera certamente non riuscirò a.

Poi quando capirò che.

Allora, forse, saprò anche.

Adesso ho un po' di.

E mi sento.

E poi sotto c'è la vecchia che.

Avrei voglia di.

E potrei anche.

Ma poi penso che.

E allora niente.

Oggi dovrei anche andare a.

Ma onestamente voglio trovare di meglio da.

Riflettendoci la mia vita fa.

Adesso mi piacerebbe andare in giro a.

E pensare che.

Ho la sensazione di essere.

E poi sto aspettando che.

Però vorrei solo che tu.

Sono come quella donna senza.

O come quella che.

Sono priva di.

Ed ho la forte sensazione che.

E poi ho paura di.

E sento la mancanza di.

Anche se non ti.

Oggi le mie emozioni sono solo un po'.

martedì 31 marzo 2020

Quella pera pene (8 gennaio 2012)

Si era arrivati a un punto della serata in cui c'era il silenzio. Sapete quando si è parlato un po' di tutto, la cena è finita e allora arriva l'abbiocco generale? Mi domando sempre perché, in momenti del genere, non mi faccio i cazzi miei...E neanche ieri sera sono rimasta zitta. Sarà che quei momenti li odio, li trovo imbarazzanti e mi prende il complesso di dove mettere le mani. Non sto scherzando, non so dove poggiarle. E comincio a guardarmi attorno, in cerca di uno spunto di dialogo o qualcosa che possa sciogliere l'aria. Da dire che la casa nella quale mi trovavo ieri sera di spunti ne offre parecchi. E' stracolma di cose, oggetti, mobili, soprammobili, quadri, stampe e cacate varie. Ricordi, insomma. I miei occhi, ieri sera, sono caduti su un vassoio appeso alla parete. Un coso che avevo già visto millemila volte, ma non l'avevo mai guardato veramente. Sfondo nero, una pera al centro attorniata da due fette d'anguria e due grappoli d'uva, leggermente in posizione obliqua. Fino a qui tutto normale, se non fosse stato per il fatto che la pera raffigurava un cazzo. No, non un cazzo nel senso di niente. Proprio un cazzo. Il padre del festeggiato (contest: ieri sera, festa di compleanno del mio migliore amico. Cena buffet che io, lui e altre tre o quattro persone - quelle che in quella casa hanno più confidenza, compreso suo padre - abbiamo fatto diventare cena seduti in cucina che degli altri non ce ne fotte) mi guarda e se la ridacchia sotto la barba bianca. Io, che non so cosa sia lo scuorno finchè non c'ho infilato le mani dentro, chiedo al suo baffo arricciato: «Ma vedo bene?»
Lui, un signore di più di sessant'anni che al posto del cervello ha il national geographic sano sano, lui che ha girato il mondo in nave, che se un pomeriggio ti stai annoiando e in Tv non danno il documentario che ti piacerebbe guardare vai a trovarlo e te lo fai raccontare perchè lo ascolti parlare di tutte le cose che ha visto, mi risponde: «Credo di sì. Ma a scanso di equivoci, dimmi cosa vedi.» 
«Ma veramente ci vedo un cazzo, comandà.» 
«Allora avevo capito bene.», risponde flemmatico.
Il figlio, che ha già assistito in passato a scene simili, non si scompone. 
Ma inizia ad avere la faccia semi terrorizzata quando mi vede continuare a fissare il vassoio. Mi conosce e sa bene cosa sarei stata capace di inventarmi. 
Il padre continua al posto mio: «L'ho comprato in Sicilia con mia moglie. Era sulla bancarella di una ragazza. Disse che l'aveva dipinto lei...» lasciando intendere un freudiano senso di vuoto, nell'artista. 
Nel corso della discussione entra in cucina la fidanzata di un amico del festeggiato. Una cosa corta un metro e quaranta (non me ne vogliano le persone di bassa statura, ma ogni volta che mi è capitato di schifare qualcuno a pelle si è trattato di un elemento che alzava la testa per guardarmi in faccia) con l'espressione so tutto io stampata in faccia. Di quelle che prenderesti a padellate sui denti così, gratuitamente. Lo sguardo di quella che pensa di essere migliore di chiunque e la bocca storta, in atteggiamento di sufficienza verso il mondo. Insomma, voi capirete...
La nanerottola inizia a seguire il dibattito con interesse. 
Alle stronzate dette in precedenza, aggiungo: «Ma sinceramente non ci vedo solo un cazzo. A ben guardare ci vedo una penetrazione proprio!» 
Capitan Findus mi guarda compiaciuto. Cosa che mi fa ben sperare di non averla detta troppo grossa. La cucina si riempie di pensieri, opinioni più o meno discordanti come se ci fossimo trovati al Louvre davanti a un cesso di quadro e stessimo tentando di dare un senso al biglietto pagato all'ingresso. La nana non poteva certo lasciarsi sfuggire una simile occasione per dar sfogo alla sua saccenza: «Ma come fai a vederci una penetrazione?! - mi dice con aria ironica dandomi diplomaticamente, solo con quella faccia di cazzo che la contraddistingue, della demente - Non è possibile avere un rapporto in quella posizione!» 
«Sì che è possibile, scusa. Le fette di anguria sono le cosce di una donna, aperte. I grappoli d'uva sono le braccia. Aperte anche loro, come se questa fosse completamente abbandonata. La pera si vede cos'è, è palese.» 
«Si, la pera sì. Ma il resto no, cioè, ma come fai...» 
E intanto cercava di dar credito alla sua tesi, mimando forme geometriche varie ed eventuali con le dita. Vi lascio immaginare la scena. Inutile dire che il festeggiato stava preparando bende, garze e tintura di iodio, conoscendomi. «Scusa, eh...Ma non t'è mai capitato di allargare le cosce a tal punto? Mai di allargare anche le braccia? Mai di pensare famme chell' che buò, ma fammelo? No, mai?», ho insistito per il gusto di aumentare il mio coito cerebrale. 
«No, mai. E sinceramente secondo me non è possibile prenderlo, in quella posizione.» 
«Fermo restando che in un disegno o un dipinto, ognuno ci vede quel che ci vede. L'interpretazione è soggettiva. Ad ogni modo è possibile, cara. Fidati.»
«No!», ha esclamato lei non accettando la figura di merda in corso. Figura di merda evidenziata dagli sguardi basiti dei presenti e dal ridacchiare del padre del festeggiato. 
«Sì, lo è. Rassegnati al fatto che, evidentemente, e scusami se te lo dico, non scopi abbastanza. Dovresti provare ad assumerla, quella posizione. Si chiama sesso. E' divertente.» 
Lei, imperversando in un pensiero monnezza: «Non ci tengo proprio!» 
Se poco prima tutti la guardavano basiti, hanno cominciato a guardarla esterrefatti e schifati.  «Tesoro...non sai che ti perdi.», ho concluso dandole il colpo di grazia. Adesso, ogni volta che guarderò quel vassoio appeso alla parete di quella cucina, mi ricorderò qualcosa che già sapevo, ma che è sempre bene tenere a mente: la gente dovrebbe pensare a chiavare. Anziché rompere il cazzo.