La cardarella è poliglotta. Translate!

11 ago 2024

Giovedì 8 agosto



Giovedì 8 agosto ho fatto l’ultima somministrazione di monoclonali. Quando sono uscita dall’ospedale manco ci credevo. Non avrei dovuto più vivere tre settimane aspettando di dover tornare lì, dove ho sempre visto la stanchezza e la rassegnazione sedute nella sala d’attesa. Dove in questi mesi ho visto infermieri correre, preparare terapie e incazzarsi in assenza delle stesse. Ho visto accompagnatori più spaventati dei pazienti, altri che cercavano solo di minimizzare. Ho visto persone pregare prima della terapia, altre andare via soddisfatte con la faccia di chi pensa: “E pur chest è fatta”. Ho visto oncologi esasperati, stanchi, contenti, attenti. Quando mi hanno infilato in vena l’ago per iniettarmi la flebo di cortisone e antistaminico (prima dei monoclonali è necessaria) due minuti dopo ho visto il braccio gonfiarsi. “Antò, vedi che qua si è fatto un bozzo e mi fa male. Lui ha controllato e ha sbottato con una bestemmia tra i denti: “È uscito l’ago. Non ti preoccupare per il bozzo, si assorbe. Proviamo con l’altro braccio.” Due minuti dopo stessa cosa. Bozzo e dolore. “Terè sti ven non ce la fanno più. Hai fatto un quasi mezza flebo, dovrebbe bastare. Adesso ti faccio i monoclonali sulla pancia. Se senti che si chiude in gola dimmelo subito.” Mentre lui iniettava questi anticorpi geniali che dovrebbero attaccare solo le cellule malate e non quelle sane, io immaginavo di nuovo quella guerriglia urbana di cui scrissi mesi fa. Immaginavo questi tizi con scudo antisommossa e casco che erano andati ad aiutare i miei anticorpi, esausti. Ma non so come mai mi è venuto in mente che forse, tra i miei anticorpi, ce n’è stato uno che non ha voluto combattere. Che è salito sul suo SH bianco e si è rifiutato di partecipare alla battaglia, perché tra le cellule malate ce n’era una destinata a morire, ma che quando stava bene era sua amica. Allora lui è andato in giro all’infinito. Non per vigliaccheria, ma solo perché l’amore e l’umanità superano la malattia. Sentimenti che ho sentito in ogni abbraccio che ho ricevuto dal personale ospedaliero alla fine della terapia. Ecco, se c’è un’altra cosa che in questi mesi ho visto è stata l’umanità. Tanta, che raramente ho incontrato fuori. Non l’ho vista fuori da quel reparto prima della malattia, né durante. Ho più volte chiesto aiuto a chi per vigliaccheria non c’è stato, ho pianto, provato rabbia, angoscia, paura. Ho riso, c’ho pure scherzato sopra. Ma la sensazione che ricordo con maggior stupore è stato l’orgoglio nel vedere il coraggio di mio figlio. L’unico che si è sciroppato il mio cancro per tutti ‘sti mesi ogni santo giorno. Lui stava con lo zaino sulle spalle, pronto per la scuola e io dovevo correre in bagno a vomitare. Più volte gli dovevo chiedere di fermarci, mentre lo accompagnavo, perché non riuscivo nemmeno a camminare. E lui aspettava. Appena ho perso i capelli mi passava spesso la mano sulla testa, me l’abbassava e la baciava. E secondo me perciò stanno ricrescendo così in fretta. Quando giovedì gli ho detto che quella era stata l’ultima volta che ero andata a prendere le medicine mi ha stretta forte, forte. E mi ha passato di nuovo la mano in testa. A causa del cancro ho dovuto rinunciare al secondo figlio. Ho iniziato le chemioterapie a marzo perché non volevo più farle. Volevo farlo nascere e poi curarmi. Finché il primario del reparto, ora in pensione, non mi disse: “Non lo so che cosa succederà. Non lo sa nessuno. Ma so bene che altri sette mesi non ce li hai. Tu vuoi farlo nascere? Ok, ma poi guarda che non ti vedi bene manco del primo. Questo lo so per sicuro. È che fai? O lass sul?” Allora mi sono affidata all’oncofertilità del policlinico, dove ho trovato altrettanta empatia con frasi tipo: “Liev stu tumor a miez, poi mettiamo mano alla gravidanza ambress ambress. Non da retta a che ti dice che già tieni 40 anni. Sono stronzate. Se non arriverà da solo lo faremo arrivare.” Ho la pet di controllo il 18 settembre. E non ci voglio pensare. Voglio pensare solo alle parole scritte da Mattia Torre, che spiattellano paro paro quello che mi porto appresso e che magari è dentro ad ognuno di voi, esseri capaci di sopportare qualunque cosa. Voi che mi dicevate: “Devi fare un passo alla volta”.
“Prima di ammalarmi mi ritenevo indistruttibile, ma se devo essere sincero la mia vita non girava bene. Se mi fossi ascoltato di più, avrei sentito che qualcosa non andava. La malattia è arrivata in maniera esplosiva, deflagrante. Ha cambiato tutto. E anche se è difficile ammetterlo, ha cambiato tutto in meglio. Mi ha aperto gli occhi, la testa, il cuore. Ora ho nuovi desideri. Voglio essere centrato, voglio stare in piedi, voglio vivere in asse su una linea verticale. Non voglio avere paura, perché la paura ti mangia e non serve a niente. Voglio pagare le tasse con gioia, perché un ospedale pubblico mi ha salvato la vita senza chiedermi niente in cambio. Voglio guardarmi intorno e vivere tutto quello che è possibile con generosità e vitalità. Questo tumore mi ha salvato la vita. Senza questo tumore sarei senz’altro morto.
Quando ho saputo di avere un tumore, quando mi hanno dato quella notizia sono morto all’istante. E poi da quel momento ogni minuto trascorso, ogni ora, giorno, mese è stato sorprendente e inaspettato. È stato un regalo, un dono. Come un morto a cui si dice: “Puoi vivere ancora. Non si sa quanto. Ma puoi vivere ancora. Basta fare un passo alla volta.”

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