Ti ricordi quando ti dissi che ero stanca e tu mi prendesti la testa tra i sogni, per farla riposare?
Non sono mai più riuscita ad apprezzare lo stupore dell'incapacità di dormire.
E ti ricordi quando andammo nella pace della montagna, ad ascoltare suoni sconosciuti alle città rumorose, alla gente presa da se stessa? Raccolsi un fiore. E tutt'ora mi fa da tenda tra la luce delle parole di un libro e il mondo esterno e saccente.
E poi quando corsi per venire a guardarti una volta soltanto, te lo ricordi?
Ebbi il cuore in gola che batteva talmente forte da farmi avere quasi paura di morire.
Di tutte le speranze spese a perdifiato, come gambe veloci l'una davanti all'altra. Tutte le illusioni, i sogni ad occhi aperti di cui abbiamo riso davanti a un bicchiere di desideri.
Forse neanche questo riesci a ricordare.
E ti ricordi quando mi regalasti la tua musica, in un cesto fatto di nodi e scampoli di vita passata?
Lo conservo in una stanza buia, perchè alle cose davvero belle la luce non è necessaria.
Quando mi hai abbracciata, stretta tanto da darmi tutta l'aria che mi è necessaria, te lo ricordi?
Non ho più respirato a fondo, mai più avuto così tanta vita nei polmoni.
Quando abbiamo vissuto una vita di fragole, fiori e trasparenze d'acqua, tu non c'eri.
Il mio cuore era solo, un avido, audace sognatore che combatteva contro silenzi reali e insopportabili.
La mia anima gli somiglia.
E allora io costruisco un castello di ricordi inesistenti, anche troppo grande per me sola.
Quando è sera e mi rifugio nella sua stanza più piccola, ci sono tutte le parole che non ti ho detto a farmi compagnia, a parlare con me con la voce del mio cuore.
Mentre il coraggio, il mio, vecchio e stanco, sbuffa sotto la sua morbida barba bianca e mi guarda con la coda dell'occhio.
Il coraggio che non hai il coraggio di esercitare, non da mai soddisfazione.
È arrabbiato, deluso. Io mi vergogno ogni sera. Tutte le volte che lui c'è quando parlo con le pareti di casa fingendo sia il tuo petto, o tutte le volte che le parole si bloccano in un rigurgito di cuore, in un sospiro nervoso di egoismo.
Poi arriva la paura che m'interrompe i sogni. È ben vestita e ha la faccia arcigna e sempre giovane. Ride, mi fissa con impertinenza. M'innervosisce. Ma a lei i miei sogni non piacciono e l'unico modo che ho per cacciarla via è ovattarmi in ricordi che non ho, ma ho saputo costruire dal niente.
È solo in quel brevissimo istante che il coraggio mi guarda felice, perché ho dimostrato la sua concretezza.
La paura va via stizzita, ma sappiamo entrambe che ritornerà ogni volta che non avrò fegato di dirti che sei qui con me, anche ora, che sei lontano.
Cardarella: recipiente metallico a forma di cono tronco con due manici alle estremità usato da operai edili, carpentieri e quant'altro si accinga a mescolare, impastare o sciogliere materiali usati in edilizia.
lunedì 4 maggio 2020
Ciò a cui nel cuore ben poco assomiglia (7 febbraio 2012)
Non avrei potuto scriverlo in pochi caratteri o in uno spazio angusto.
Che poi, a me, gli spazi stretti non sono mai piaciuti molto.
Vedi, il punto è molto semplice. Ma articolato come un nodo da sciogliere.
Non è tanto chi mi ha fatto così male da scalciarmi sullo stomaco come un mulo. Ma perché.
Perché, visto che avrebbe solo dovuto proteggermi, abbracciarmi quando ne avevo bisogno, esserci anche in silenzio, anche da lontano.
Avrebbe dovuto farmi vivere sapendo che era lì, per me.
Ad accogliermi. Come una carezza sulla testa o una coperta da riscaldare col proprio corpo.
Lei doveva esserci. Per scacciare via i cattivi pensieri. Non per cacciare via me dalla sua vita.
Non per mettermi le mani addosso e scaricare come un macigno sulle mie spalle i suoi fallimenti.
Lei doveva essere viva per me. Perché non le ho chiesto io, di vivere.
E invece ieri mi ha lasciata cadere.
Sono rimasta aggrappata al ciglio per troppo tempo, a parlare con lei che invece su quello stesso ciglio ci stava comodamente seduta. A fumare e guardare la Tv. Lei era al sicuro e questo mi bastava. Le avevo creato io, quel rifugio. L'ho voluto, l'ho pagato col sangue e l'amore. Solo per lei. L'ho mantenuto.
Era il saperla al riparo da qualsiasi problema, che mi manteneva in equilibrio.
E non mi aspettavo di certo che a schiacciarmi le nocche sotto i tacchi, sarebbe stata proprio lei...
Però l'ha fatto. E non mi ha trattenuta. Anzi, mi ha guardata precipitare come se stesse osservando la scena di un reality pulp e di seconda serata.
Quando mi sono rialzata, ho cercato di farla ragionare. Ho tentato disperatamente di farle capire che tento di aiutarla, per quanto posso. E invece lei ha preso la carcassa che restava del mio affetto filiale e l'ha scaraventata di nuovo via, come se fosse stato un rifiuto maleodorante e datato.
Avresti dovuto vedermi, sembravo una bambina col mal di gola che l'unica parola che sa dire quando sta male è: "Mamma..."
Non ripetevo altro.
Ma non parlavo con lei. Parlavo con quel che credevo lei fosse per me.
E allora ho guidato fino a sfiancarmi, come se avessi avuto una meta da raggiungere o qualcuno da cercare. Con quelle parole che mi risuonavano nella testa, senza interruzione. Si da troppo per scontato, negli affetti.
Se un giorno mi avessero detto: "Tua madre una sera ti dirà di andartene e non farti più vedere." forse avrei riso con un po' di angoscia. Ma non c'avrei creduto completamente.
Perché davo appunto per scontato che lei si sarebbe comportata da madre e non da essere umano. E' vero, hai ragione. Una madre è un essere umano, ma riesce a mettere da parte il proprio ego, i propri egoismi e a tener conto del fatto che anche una figlia, è un essere umano?
Ora tutto quello che vorrei dirle è che mi dispiace. Ma che non ho potuto far di più, fino ad ora.
Ho provato, ma ho fallito.
E che se in quel rifugio è entrata qualche goccia d'acqua per una crepa al soffitto della quale non mi sono accorta, mi sento pericolosamente in difetto.
Con la consapevolezza che, ora, non ho veramente più nessuno, al mondo.
Chi banalizzerà penserà che si tratta di una bufera che lascia del fango per terra e un cielo chiaro da guardare. Ma chi subisce se le porta nello stomaco, quelle lame.
Che un giorno faranno ruggine, ma saranno sempre lì.
A ricordati che anche chi credi debba amarti gratuitamente, si assenta.
Ed è quell'amore che ancora provi, che non sopporti, perché se riuscissi ad odiare con cinica indifferenza sarebbe decisamente più semplice, ad averti disarmata. Ad averti portata a subire, a guardare con sconcerto chi ti graffiava il cuore.
E allora decidi che quel soffio di vento resta l'unica cosa dolce vissuta ieri.
E gli vai incontro, lasciando che ti accarezzi la faccia.
Ed è l'unica compagnia capace di rassicurarti.
Paradossalmente così vicina, da sembrare l'abbraccio che ieri non hai avuto.
giovedì 23 aprile 2020
Il disinformatico (3 febbraio 2012)
Ieri, secondo giorno di febbraio.
«Terè!»
Quando mio padre esordisce una telefonata così, senza dire una cosa tipo: "Uè figliabbella!" oppure "Bbell'appapà!", ho fatto qualcosa. E sinceramente, mai come ieri mattina, ero convinta che fosse arrivata una multa, che mi avessero acchiappata gli autovelox sull'Appia, che fosse giunto tra le sue mani non so come un avviso di garanzia, una condanna in contumacia o che mi fossi scordata di pagare qualcuno.
«Paaaapiii...!», ho risposto. Il finto entusiasmo va esplicato strascicando rigorosamente l'ultima vocale.
«Aiutami, sto nella merda!»
Paradossalmente mi so' calmata. Sì perchè se nella merda ci stava lui, non ci stavo io. Cioè se aveva detto così era sicuro che non mi aspettava una mazziata...
Eh ma che volete da me, quell'è un'equazione. E chi si salva è il mio deretano. Certo, non cosa da poco...
«Ma che è successo?»
«Agg' fatt'un bordello!»
«Ma ti hanno acchiappato due femmine con un'altra e hai abbuscato?»
«No, peggio.»
«Ti hanno fatto firmare un foglio in bianco e poi sopra ci hanno scritto che sei un berlusconiano e lo sarai fino alla morte?»
«No, no!»
«Ti hanno detto che ti devi far tagliare le palle, papà?»
«No...» ha risposto lui abnegando qualsiasi motivo grave e realistico di depressione, con voce depressa.
A quel punto, il principio d'infarto che mi stava cogliendo, s'è sciolto nell'acido. Qualsiasi cosa fosse successa, escludendo quelle succitate, era reparabile.
«Che è successo, allora?»
«No, ma chill' è venuto uno che lavora qua - Per chi non lo sapesse, mio padre fa le pulizie al centro direzionale di Napoli. - e mi ha chiesto di pulirgli la tastiera del computer quando avevo due minuti. Ma chella tastiera facev' veramente schifo. Cioè i tasti non si vedevano tanta era la zuzzimma che ci stava sopra. Mò siccome era una tastiera vecchia, che era prima stata usata da un altro, poi da un altro, poi non so da chi e poi da lui, io so che questi non hanno il tempo nemmeno di andare a pisciare e quindi ho pensato che chiossap' quante briciole e fetenzia ci stavano, in mezzo ai tasti...»
«E quindi?!», ho domandato terrorizzata ben sapendo cosa accade a una tastiera datata.
«L'ho arrevacata!»
«Embè?»
«Da dentro ci sono usciti Pasqua e Natale del '92. Pure nu piezz' e capretto, la verità. Ma il problema è che si sono staccati tutti quei sfaccimma di tasti! Solo pochi so' rimasti azzeccati! - Intanto io cominciavo a mettermi le mani in fronte e chiudere gli occhi - E mò non so come acconciarla. Non la posso nemmeno ammacchiare perchè me la vedrebbero e chist' tra un'ora sta un'altra volta qua a va trovando la tastiera pulita. Io non solo non gliel'ho pulita, ma ce l'agg' pur' scassat'!»
Quando mio padre esordisce una telefonata così, senza dire una cosa tipo: "Uè figliabbella!" oppure "Bbell'appapà!", ho fatto qualcosa. E sinceramente, mai come ieri mattina, ero convinta che fosse arrivata una multa, che mi avessero acchiappata gli autovelox sull'Appia, che fosse giunto tra le sue mani non so come un avviso di garanzia, una condanna in contumacia o che mi fossi scordata di pagare qualcuno.
«Paaaapiii...!», ho risposto. Il finto entusiasmo va esplicato strascicando rigorosamente l'ultima vocale.
«Aiutami, sto nella merda!»
Paradossalmente mi so' calmata. Sì perchè se nella merda ci stava lui, non ci stavo io. Cioè se aveva detto così era sicuro che non mi aspettava una mazziata...
Eh ma che volete da me, quell'è un'equazione. E chi si salva è il mio deretano. Certo, non cosa da poco...
«Ma che è successo?»
«Agg' fatt'un bordello!»
«Ma ti hanno acchiappato due femmine con un'altra e hai abbuscato?»
«No, peggio.»
«Ti hanno fatto firmare un foglio in bianco e poi sopra ci hanno scritto che sei un berlusconiano e lo sarai fino alla morte?»
«No, no!»
«Ti hanno detto che ti devi far tagliare le palle, papà?»
«No...» ha risposto lui abnegando qualsiasi motivo grave e realistico di depressione, con voce depressa.
A quel punto, il principio d'infarto che mi stava cogliendo, s'è sciolto nell'acido. Qualsiasi cosa fosse successa, escludendo quelle succitate, era reparabile.
«Che è successo, allora?»
«No, ma chill' è venuto uno che lavora qua - Per chi non lo sapesse, mio padre fa le pulizie al centro direzionale di Napoli. - e mi ha chiesto di pulirgli la tastiera del computer quando avevo due minuti. Ma chella tastiera facev' veramente schifo. Cioè i tasti non si vedevano tanta era la zuzzimma che ci stava sopra. Mò siccome era una tastiera vecchia, che era prima stata usata da un altro, poi da un altro, poi non so da chi e poi da lui, io so che questi non hanno il tempo nemmeno di andare a pisciare e quindi ho pensato che chiossap' quante briciole e fetenzia ci stavano, in mezzo ai tasti...»
«E quindi?!», ho domandato terrorizzata ben sapendo cosa accade a una tastiera datata.
«L'ho arrevacata!»
«Embè?»
«Da dentro ci sono usciti Pasqua e Natale del '92. Pure nu piezz' e capretto, la verità. Ma il problema è che si sono staccati tutti quei sfaccimma di tasti! Solo pochi so' rimasti azzeccati! - Intanto io cominciavo a mettermi le mani in fronte e chiudere gli occhi - E mò non so come acconciarla. Non la posso nemmeno ammacchiare perchè me la vedrebbero e chist' tra un'ora sta un'altra volta qua a va trovando la tastiera pulita. Io non solo non gliel'ho pulita, ma ce l'agg' pur' scassat'!»
«Stai calmo.» ho detto mentre mi avviavo per raggiungerlo. Tanto la mia mattinata e tutti i progetti che avevo, ormai, erano andati a puttane.
«Si, ma quello poi io pensavo che tu li conosci a memoria le tastiere, quindi potevi venire qua e l'aggiustavi tu.»
«Papà io le tastiere non le conosco a memoria. Ancor di più se consideri che spesso ognuna è diversa dall'altra. Io sto venendo. Ma tieni conto che sto a piedi. La moto l'ho lasciata a Formia - errore del quale mi pentirò per il resto dei miei giorni - e la macchina non la schiommo nemmeno se mi danno una cosa di soldi. Quindi devi aspettà. Tu intanto cerca di trovare una tastiera come quella, così quando arrivo la rimettiamo a posto prima.»
«Ok, ma fa ambress!»
Partendo dal presupposto che gli autobus a Napoli non passano mai, che in quel momento non ero nè moto nè auto munita, ho realizzato in un attimo di lucidità che non mi trovavo eccessivamente lontana dal Centro Direzionale e che, senza intalliarmi, avrei potuto raggiungerlo a piedi. E così ho fatto. Tempo un quarto d'ora scarso e stavo lì, con lui. A fare il funerale con gli occhi alla tastiera scassata. C'erano anche le briciole di pane, sulla scrivania, a dare l'ultimo saluto alla compagna di una vita. Erano delle signore, quelle briciole. Non un lamento, non un pianto fastidioso. Rispettavano il dolore di tutti. Tutti erano in cordoglio. Tranne Giggino che bestemmiava come un animale: «Mannagg' a maronn a me e a chi m'ha fatt' fa!»
«Ma l'hai procurata un'altra tastiera per fare il confronto?», ho chiesto come se avessimo dovuto fare l'analisi del DNA sperando di trovarne uno diverso e quindi sgamare l'assassino.
«No, macchè! Acconciala appapà, jà!». Quando me l'ha detto per l'ennesima volta stava per piangere.
Non mi sono abbandonata ad un sconfortante maronn' e mò come faccio? perchè altrimenti mio padre si sarebbe dato sicuro capa e muro. Ma mi sono ricordata che a casa, nascosta da qualche parte, dovevo avere una tastiera identica. Avete presente quelle tastiere vecchie, bianche, coi tasti che quando li pigi nulla hano di futuristico? Sì, anche dal rumore che fanno i tasti pigiati ti accorgi se la tastiera è vecchia o no. Almeno nella mia testa. L'ho detto a Giggino, di averne una uguale. Il suo volto si è illuminato, come se avesse visto un'entità celeste, avesse vinto una cosa di soldi o avesse scansato una saittella per non inciampare. A volte a Napli le saittelle sono il demonio. Oratutto a posto, direte voi...E invece le parole più preoccupanti che ho scritto fino ad ora sono state nascosta da qualche parte. Perchè io l'avevo. Sapevo di averla. Ma non sapevo dove minchia fosse. E questo remava non poco a mio sfavore visto che avevo i minuti contati.
Ho evitato di dirlo a Giggino. Ormai nei cazzi storti mi ci ero messa da sola. E da sola dovevo uscirne.
«Vall'a prendere, vien' cu mme!», non ha fatto neanche in tempo a finire la frase, mio padre, che già stavamo giù a corrompere la guardia giurata con caffè e cornetto affinchè mi prestasse un attimo la moto per correre a casa. Arrivo, saluto i quadrupedi festosi e comincio a cercare. Mi ha detto veramente culo perchè l'ho trovata praticamente dopo cinque minuti. Candida, anche se non illibata, non ha opposto resistenza quando l'ho infilata dentro una busta di plastica e trattenuta come ostaggio per la mia salvezza. Raggiungo nuovamente mio padre, consegno la moto al legittimo proprietario che stava già preparando corda e scannetiello per impiccarsi, presumendo un incidente e la sua motocicletta in frantumi. Del mio cranio si preoccupano in pochi.
Risalgo da mio padre che intanto stava purificando l'ambiente dalla seccia con l'incenso e la scatolina di latta. Gli mancavano solo gli occhiali tondi neri, il bastone e lo scartiello, la verità. Metto la tastiera integra sulla scrivania, ammacchio quella scassata nella busta, e nell'istante in cui mio padre prende la tastiera che gli ho portato decidendo di darle una lavata di faccia, entra in quella stanza la grandissima lota che aveva chiesto a Giggino di pulire quello scempio sul quale poggiava i polpastrelli. E trova patemo co' 'sta tastiera in mano e il panno, dall'altra parte. Manco saluta, s'avvia convinto verso l'aggeggio ed esclama: «Maronn' Pinto! - guardando mio padre - Lo sapevo che solo voi potevate tanto! E' tornata nuova! Non so come ringraziarvi! Vi posso offrire un caffè?»
Mio padre, che a quel punto altro non poteva fare se non lo splendido, s'è abboffato a tipo gallo cedrone. Contento e pieno di sè. Anche se non aveva fatto un cazzo. «Grazie, grazie.», ha detto sorridendo a 344 denti.
Intanto io cercavo di nascondere la busta che conteneva il cadavere della tasteira precedente.
«Abbè, papà. Io mò me ne vado.»
«Uh Pinto - fa il madonna - Ma questa è vostra figlia?»
Mio padre annuisce.
«Permette?» e mi porge la mano come per stringere la mia.
Scendiamo, prendiamo il caffè - come se l'adrenalina che avessi ancora in corpo non bastasse - e cerco di dileguarmi in fretta dalla morsa di domande che quel 40enne cercava di cingermi tra mani e piedi.
Mio padre capisce e all'orecchio mi fa: «Chist' è separato. Ma sta pieno di soldi e figli non ne tiene.», raggelandomi in un imbarazzo che manco vi sto a raccontare.
Mentre il tizio continuava a squadrarmi, ho glissato qualsiasi spunto di conversazione dicendo: «Senti papà io adesso me ne vado che c'ho da fare. Ti chiamo in questi giorni.»
Saluto l'ignaro possessore della mia vecchia tastiera, abbraccio mio padre e mi avvio verso l'uscita con le mani in tasca. Più o meno un'oretta dopo Giggino mi chiama: «Ti ho fatto fare una ricarica al cellulare di 10,00 Euro dal terminale, appapà, l'hai ricevuta?» In effetti mi era arrivato un sms, ma non lo avevo ancora letto. «Sì, papà. Grazie.»
«Eh, mi pare il minimo. Te lo fatta fare da chillu strunz' che s'è pigliato la tastiera tua.», ha detto con voce soddisfatta come se lo avesse pigliato per il culo una seconda volta.
«Maronn' papà. Ma non potevi andare da qualcun'altro o in tabaccheria?»
«Uhggesù e perchè? Poi che sfizio c'era?»
«C'era lo sfizio che quello mò non aveva il numero mio!»
lunedì 13 aprile 2020
Artetecosa...mente (30 gennaio 2012)
Oggi mi sento come quella che.
Stamattina mi sono sentita.
Adesso sto un po'.
E stasera certamente non riuscirò a.
Poi quando capirò che.
Allora, forse, saprò anche.
Adesso ho un po' di.
E mi sento.
E poi sotto c'è la vecchia che.
Avrei voglia di.
E potrei anche.
Ma poi penso che.
E allora niente.
Oggi dovrei anche andare a.
Ma onestamente voglio trovare di meglio da.
Riflettendoci la mia vita fa.
Adesso mi piacerebbe andare in giro a.
E pensare che.
Ho la sensazione di essere.
E poi sto aspettando che.
Però vorrei solo che tu.
Sono come quella donna senza.
O come quella che.
Sono priva di.
Ed ho la forte sensazione che.
E poi ho paura di.
E sento la mancanza di.
Anche se non ti.
Oggi le mie emozioni sono solo un po'.
Stamattina mi sono sentita.
Adesso sto un po'.
E stasera certamente non riuscirò a.
Poi quando capirò che.
Allora, forse, saprò anche.
Adesso ho un po' di.
E mi sento.
E poi sotto c'è la vecchia che.
Avrei voglia di.
E potrei anche.
Ma poi penso che.
E allora niente.
Oggi dovrei anche andare a.
Ma onestamente voglio trovare di meglio da.
Riflettendoci la mia vita fa.
Adesso mi piacerebbe andare in giro a.
E pensare che.
Ho la sensazione di essere.
E poi sto aspettando che.
Però vorrei solo che tu.
Sono come quella donna senza.
O come quella che.
Sono priva di.
Ed ho la forte sensazione che.
E poi ho paura di.
E sento la mancanza di.
Anche se non ti.
Oggi le mie emozioni sono solo un po'.
martedì 31 marzo 2020
Quella pera pene (8 gennaio 2012)
Si era arrivati a un punto della serata in cui c'era il silenzio. Sapete quando si è parlato un po' di tutto, la cena è finita e allora arriva l'abbiocco generale? Mi domando sempre perché, in momenti del genere, non mi faccio i cazzi miei...E neanche ieri sera sono rimasta zitta. Sarà che quei momenti li odio, li trovo imbarazzanti e mi prende il complesso di dove mettere le mani. Non sto scherzando, non so dove poggiarle. E comincio a guardarmi attorno, in cerca di uno spunto di dialogo o qualcosa che possa sciogliere l'aria. Da dire che la casa nella quale mi trovavo ieri sera di spunti ne offre parecchi. E' stracolma di cose, oggetti, mobili, soprammobili, quadri, stampe e cacate varie. Ricordi, insomma. I miei occhi, ieri sera, sono caduti su un vassoio appeso alla parete. Un coso che avevo già visto millemila volte, ma non l'avevo mai guardato veramente. Sfondo nero, una pera al centro attorniata da due fette d'anguria e due grappoli d'uva, leggermente in posizione obliqua. Fino a qui tutto normale, se non fosse stato per il fatto che la pera raffigurava un cazzo. No, non un cazzo nel senso di niente. Proprio un cazzo. Il padre del festeggiato (contest: ieri sera, festa di compleanno del mio migliore amico. Cena buffet che io, lui e altre tre o quattro persone - quelle che in quella casa hanno più confidenza, compreso suo padre - abbiamo fatto diventare cena seduti in cucina che degli altri non ce ne fotte) mi guarda e se la ridacchia sotto la barba bianca. Io, che non so cosa sia lo scuorno finchè non c'ho infilato le mani dentro, chiedo al suo baffo arricciato: «Ma vedo bene?»
Lui, un signore di più di sessant'anni che al posto del cervello ha il national geographic sano sano, lui che ha girato il mondo in nave, che se un pomeriggio ti stai annoiando e in Tv non danno il documentario che ti piacerebbe guardare vai a trovarlo e te lo fai raccontare perchè lo ascolti parlare di tutte le cose che ha visto, mi risponde: «Credo di sì. Ma a scanso di equivoci, dimmi cosa vedi.»
«Ma veramente ci vedo un cazzo, comandà.»
«Allora avevo capito bene.», risponde flemmatico.
Il figlio, che ha già assistito in passato a scene simili, non si scompone.
Ma inizia ad avere la faccia semi terrorizzata quando mi vede continuare a fissare il vassoio. Mi conosce e sa bene cosa sarei stata capace di inventarmi.
Il padre continua al posto mio: «L'ho comprato in Sicilia con mia moglie. Era sulla bancarella di una ragazza. Disse che l'aveva dipinto lei...» lasciando intendere un freudiano senso di vuoto, nell'artista.
Nel corso della discussione entra in cucina la fidanzata di un amico del festeggiato. Una cosa corta un metro e quaranta (non me ne vogliano le persone di bassa statura, ma ogni volta che mi è capitato di schifare qualcuno a pelle si è trattato di un elemento che alzava la testa per guardarmi in faccia) con l'espressione so tutto io stampata in faccia. Di quelle che prenderesti a padellate sui denti così, gratuitamente. Lo sguardo di quella che pensa di essere migliore di chiunque e la bocca storta, in atteggiamento di sufficienza verso il mondo. Insomma, voi capirete...
La nanerottola inizia a seguire il dibattito con interesse.
Alle stronzate dette in precedenza, aggiungo: «Ma sinceramente non ci vedo solo un cazzo. A ben guardare ci vedo una penetrazione proprio!»
Capitan Findus mi guarda compiaciuto. Cosa che mi fa ben sperare di non averla detta troppo grossa. La cucina si riempie di pensieri, opinioni più o meno discordanti come se ci fossimo trovati al Louvre davanti a un cesso di quadro e stessimo tentando di dare un senso al biglietto pagato all'ingresso. La nana non poteva certo lasciarsi sfuggire una simile occasione per dar sfogo alla sua saccenza: «Ma come fai a vederci una penetrazione?! - mi dice con aria ironica dandomi diplomaticamente, solo con quella faccia di cazzo che la contraddistingue, della demente - Non è possibile avere un rapporto in quella posizione!»
«Sì che è possibile, scusa. Le fette di anguria sono le cosce di una donna, aperte. I grappoli d'uva sono le braccia. Aperte anche loro, come se questa fosse completamente abbandonata. La pera si vede cos'è, è palese.»
«Si, la pera sì. Ma il resto no, cioè, ma come fai...»
E intanto cercava di dar credito alla sua tesi, mimando forme geometriche varie ed eventuali con le dita. Vi lascio immaginare la scena. Inutile dire che il festeggiato stava preparando bende, garze e tintura di iodio, conoscendomi. «Scusa, eh...Ma non t'è mai capitato di allargare le cosce a tal punto? Mai di allargare anche le braccia? Mai di pensare famme chell' che buò, ma fammelo? No, mai?», ho insistito per il gusto di aumentare il mio coito cerebrale.
«No, mai. E sinceramente secondo me non è possibile prenderlo, in quella posizione.»
«Fermo restando che in un disegno o un dipinto, ognuno ci vede quel che ci vede. L'interpretazione è soggettiva. Ad ogni modo è possibile, cara. Fidati.»
«No!», ha esclamato lei non accettando la figura di merda in corso. Figura di merda evidenziata dagli sguardi basiti dei presenti e dal ridacchiare del padre del festeggiato.
«Sì, lo è. Rassegnati al fatto che, evidentemente, e scusami se te lo dico, non scopi abbastanza. Dovresti provare ad assumerla, quella posizione. Si chiama sesso. E' divertente.»
Lei, imperversando in un pensiero monnezza: «Non ci tengo proprio!»
Se poco prima tutti la guardavano basiti, hanno cominciato a guardarla esterrefatti e schifati. «Tesoro...non sai che ti perdi.», ho concluso dandole il colpo di grazia. Adesso, ogni volta che guarderò quel vassoio appeso alla parete di quella cucina, mi ricorderò qualcosa che già sapevo, ma che è sempre bene tenere a mente: la gente dovrebbe pensare a chiavare. Anziché rompere il cazzo.
Lui, un signore di più di sessant'anni che al posto del cervello ha il national geographic sano sano, lui che ha girato il mondo in nave, che se un pomeriggio ti stai annoiando e in Tv non danno il documentario che ti piacerebbe guardare vai a trovarlo e te lo fai raccontare perchè lo ascolti parlare di tutte le cose che ha visto, mi risponde: «Credo di sì. Ma a scanso di equivoci, dimmi cosa vedi.»
«Ma veramente ci vedo un cazzo, comandà.»
«Allora avevo capito bene.», risponde flemmatico.
Il figlio, che ha già assistito in passato a scene simili, non si scompone.
Ma inizia ad avere la faccia semi terrorizzata quando mi vede continuare a fissare il vassoio. Mi conosce e sa bene cosa sarei stata capace di inventarmi.
Il padre continua al posto mio: «L'ho comprato in Sicilia con mia moglie. Era sulla bancarella di una ragazza. Disse che l'aveva dipinto lei...» lasciando intendere un freudiano senso di vuoto, nell'artista.
Nel corso della discussione entra in cucina la fidanzata di un amico del festeggiato. Una cosa corta un metro e quaranta (non me ne vogliano le persone di bassa statura, ma ogni volta che mi è capitato di schifare qualcuno a pelle si è trattato di un elemento che alzava la testa per guardarmi in faccia) con l'espressione so tutto io stampata in faccia. Di quelle che prenderesti a padellate sui denti così, gratuitamente. Lo sguardo di quella che pensa di essere migliore di chiunque e la bocca storta, in atteggiamento di sufficienza verso il mondo. Insomma, voi capirete...
La nanerottola inizia a seguire il dibattito con interesse.
Alle stronzate dette in precedenza, aggiungo: «Ma sinceramente non ci vedo solo un cazzo. A ben guardare ci vedo una penetrazione proprio!»
Capitan Findus mi guarda compiaciuto. Cosa che mi fa ben sperare di non averla detta troppo grossa. La cucina si riempie di pensieri, opinioni più o meno discordanti come se ci fossimo trovati al Louvre davanti a un cesso di quadro e stessimo tentando di dare un senso al biglietto pagato all'ingresso. La nana non poteva certo lasciarsi sfuggire una simile occasione per dar sfogo alla sua saccenza: «Ma come fai a vederci una penetrazione?! - mi dice con aria ironica dandomi diplomaticamente, solo con quella faccia di cazzo che la contraddistingue, della demente - Non è possibile avere un rapporto in quella posizione!»
«Sì che è possibile, scusa. Le fette di anguria sono le cosce di una donna, aperte. I grappoli d'uva sono le braccia. Aperte anche loro, come se questa fosse completamente abbandonata. La pera si vede cos'è, è palese.»
«Si, la pera sì. Ma il resto no, cioè, ma come fai...»
E intanto cercava di dar credito alla sua tesi, mimando forme geometriche varie ed eventuali con le dita. Vi lascio immaginare la scena. Inutile dire che il festeggiato stava preparando bende, garze e tintura di iodio, conoscendomi. «Scusa, eh...Ma non t'è mai capitato di allargare le cosce a tal punto? Mai di allargare anche le braccia? Mai di pensare famme chell' che buò, ma fammelo? No, mai?», ho insistito per il gusto di aumentare il mio coito cerebrale.
«No, mai. E sinceramente secondo me non è possibile prenderlo, in quella posizione.»
«Fermo restando che in un disegno o un dipinto, ognuno ci vede quel che ci vede. L'interpretazione è soggettiva. Ad ogni modo è possibile, cara. Fidati.»
«No!», ha esclamato lei non accettando la figura di merda in corso. Figura di merda evidenziata dagli sguardi basiti dei presenti e dal ridacchiare del padre del festeggiato.
«Sì, lo è. Rassegnati al fatto che, evidentemente, e scusami se te lo dico, non scopi abbastanza. Dovresti provare ad assumerla, quella posizione. Si chiama sesso. E' divertente.»
Lei, imperversando in un pensiero monnezza: «Non ci tengo proprio!»
Se poco prima tutti la guardavano basiti, hanno cominciato a guardarla esterrefatti e schifati. «Tesoro...non sai che ti perdi.», ho concluso dandole il colpo di grazia. Adesso, ogni volta che guarderò quel vassoio appeso alla parete di quella cucina, mi ricorderò qualcosa che già sapevo, ma che è sempre bene tenere a mente: la gente dovrebbe pensare a chiavare. Anziché rompere il cazzo.
lunedì 30 marzo 2020
Io e il rapinatore (parte seconda) 23 novembre 2014
Questo è il seguito di una storia che iniziai a raccontare il nove agosto, col sudore che mi scorreva sulla faccia a tipo versione cafona di Charlotte Bronte. Visto che non sono una che lascia le cose in sospeso, ho deciso di completarla oggi. Ultimo giorno di un anno di merda.
Vabbè, che sono estremamente in ritardo che c'entra...è un dettaglio...Smettete la polemica e passiamo appresso.
Riprendo l'ultimo rigo, così vi costringo a leggere la prima parte.
"A lui scappa una bestemmia in aramaico e quando sta per cominciare a parlare arriva il cavallo su due ruote che mi porterà all’agognato castello dove, finalmente, dormirò il sonno dei giusti. Però…"
...Se avessi fatto capire al mio cavaliere, quella sera, che quello era uno che aveva appena tentato di farmi una rapina, non sono il sedicente mariuolo avrebbe visto la propria faccia spiattellarsi al suolo, ma il letto, io, l'avrei visto dopo una nottata in caserma trascorsa ad aiutare l'appuntato a scrivere la denuncia. Insomma, voi capirete che era il caso di adoperare la cazzimma.
«Vieni appresso a me e non far capire niente.» , dissi al rapinatore. Lui restò in silenzio e mi seguì strofinandosi gli occhi. Salutai il cavaliere con una carezza al serbatoio della moto e subito mi sentii tozzoliare sulla spalla. Gesto accompagnato da un allegro e infastidito: «Ma chist' chi foss'?»
«No, lui è un mio vecchio conoscente. L'ho incontrato per caso.» In un momento di lucidità civile i due si strinsero la mano e al cavaliere scappò detto: «Lo prendi un caffè con noi?» Sapete quando vi volete liberare di una situazione e questa vi segue anche se cercate di seminarla buttandovi per i vichi? Così. "Mannagg' o cazz'!", pensai. Inutile dire che il rapinatore e il cavaliere mi precedettero nel bar. Iniziarono a chiacchierare del più e del meno, mentre io ragionavo sul come scollarmi di dosso quel contesto imbarazzante fatto di bugie, speranze e supposizioni. Io le schifo, le supposizioni. A furia di parlare il rapinatore se ne uscì dicendo che aveva due figli, una moglie e un basso in affitto a vico Speranzella ai quartieri. Che aveva perso il lavoro, che prima faceva l'LSUper il comune e che anche i soldi della disoccupazione erano finiti. Che il problema non era tanto portare i bambini a fare due bagni a Mondragone, perché «Quann'è buono, buono liempio la piscina la mattina e la svacanto la sera...», quanto il fatto che non sapevano come fare per mangiare. La suocera cercava di aiutarli, ma con una pensione minima non poteva fare tanto, ecc..ecc.. Intanto io sentii il mio stomaco contorcersi e le budella iniziare un improbabile processo digestivo all'altezza della trachea. Usciti dal bar, tra l'altro, il rapinatore e il cavaliere sembravano diventati amici. Quasi fratelli. Gli chiedemmo il numero di telefono (aveva un cellulare, ma lo usava ormai solo per ricevere) così, nel caso avessimo saputo qualcosa per un eventuale lavoretto da fargli fare, lo avremmo chiamato. Vi risparmio un'aspettata retorica scrivendovi che nei giorni seguenti non feci altro che pensare a lui e alla sua situazione, anche perché non fu così. E' la verità. Lasciai che la mia vita mi riassorbisse con i suoi ritmi e le sue abitudini. Fino a un po' di tempo dopo, quando, finito l'allenamento, mi venne detto che si cercava qualcuno che potesse pulire la palestra. Compresi bagni e spogliatoi. «Si, ma una persona che non abbia grandi pretese. I soldi so' pochi per tutti.» Pensai a lui e lo chiamai il giorno dopo. Ha cominciato col venire a lavorare, poi è finito sul Tatami. Poi al sacco leggero. Poi al sacco pesante, la pera, gli attrezzi e la scala del petraio a tipo Rocky che non ce la faceva neanche a dire come si chiamava, dopo. Qualche gara l'ha vinta. Qualcuna l'ha persa. Un paio di coppe ce le ha, in casa. Il fatto curioso era che ha cominciato ad allenarsi per una questione fisica. E' tarchiatello, sembra uno scimmiotto. Ma siccome aveva anche fatto lavori pesanti, stava ben piazzato. E un tipo così, se è portato per uno sport del genere, non può che fare pubblicità alla palestra nella quale si allena. Ovviamente, che non pagava, eravamo in pochi a saperlo. Il fatto ammirevole era che veniva ad allenarsi, si scassava, poi si metteva a lavorare e, una volta finito, correva a casa a lavarsi. Perché si vergognava di consumare l'acqua. Il fatto che m da al cazzo è che una volta abbiamo combattuto insieme. Amichevolmente. Ho vinto io, sì. Ma lui mi ha colpita in faccia. E m'incazzo molto, quando lo fanno. Adesso è lì che sta. E aspetta che cominci il corso delle 15.00 per insegnare ai bambini. La molletta la lascia a casa.
Vabbè, che sono estremamente in ritardo che c'entra...è un dettaglio...Smettete la polemica e passiamo appresso.
Riprendo l'ultimo rigo, così vi costringo a leggere la prima parte.
"A lui scappa una bestemmia in aramaico e quando sta per cominciare a parlare arriva il cavallo su due ruote che mi porterà all’agognato castello dove, finalmente, dormirò il sonno dei giusti. Però…"
...Se avessi fatto capire al mio cavaliere, quella sera, che quello era uno che aveva appena tentato di farmi una rapina, non sono il sedicente mariuolo avrebbe visto la propria faccia spiattellarsi al suolo, ma il letto, io, l'avrei visto dopo una nottata in caserma trascorsa ad aiutare l'appuntato a scrivere la denuncia. Insomma, voi capirete che era il caso di adoperare la cazzimma.
«Vieni appresso a me e non far capire niente.» , dissi al rapinatore. Lui restò in silenzio e mi seguì strofinandosi gli occhi. Salutai il cavaliere con una carezza al serbatoio della moto e subito mi sentii tozzoliare sulla spalla. Gesto accompagnato da un allegro e infastidito: «Ma chist' chi foss'?»
«No, lui è un mio vecchio conoscente. L'ho incontrato per caso.» In un momento di lucidità civile i due si strinsero la mano e al cavaliere scappò detto: «Lo prendi un caffè con noi?» Sapete quando vi volete liberare di una situazione e questa vi segue anche se cercate di seminarla buttandovi per i vichi? Così. "Mannagg' o cazz'!", pensai. Inutile dire che il rapinatore e il cavaliere mi precedettero nel bar. Iniziarono a chiacchierare del più e del meno, mentre io ragionavo sul come scollarmi di dosso quel contesto imbarazzante fatto di bugie, speranze e supposizioni. Io le schifo, le supposizioni. A furia di parlare il rapinatore se ne uscì dicendo che aveva due figli, una moglie e un basso in affitto a vico Speranzella ai quartieri. Che aveva perso il lavoro, che prima faceva l'LSUper il comune e che anche i soldi della disoccupazione erano finiti. Che il problema non era tanto portare i bambini a fare due bagni a Mondragone, perché «Quann'è buono, buono liempio la piscina la mattina e la svacanto la sera...», quanto il fatto che non sapevano come fare per mangiare. La suocera cercava di aiutarli, ma con una pensione minima non poteva fare tanto, ecc..ecc.. Intanto io sentii il mio stomaco contorcersi e le budella iniziare un improbabile processo digestivo all'altezza della trachea. Usciti dal bar, tra l'altro, il rapinatore e il cavaliere sembravano diventati amici. Quasi fratelli. Gli chiedemmo il numero di telefono (aveva un cellulare, ma lo usava ormai solo per ricevere) così, nel caso avessimo saputo qualcosa per un eventuale lavoretto da fargli fare, lo avremmo chiamato. Vi risparmio un'aspettata retorica scrivendovi che nei giorni seguenti non feci altro che pensare a lui e alla sua situazione, anche perché non fu così. E' la verità. Lasciai che la mia vita mi riassorbisse con i suoi ritmi e le sue abitudini. Fino a un po' di tempo dopo, quando, finito l'allenamento, mi venne detto che si cercava qualcuno che potesse pulire la palestra. Compresi bagni e spogliatoi. «Si, ma una persona che non abbia grandi pretese. I soldi so' pochi per tutti.» Pensai a lui e lo chiamai il giorno dopo. Ha cominciato col venire a lavorare, poi è finito sul Tatami. Poi al sacco leggero. Poi al sacco pesante, la pera, gli attrezzi e la scala del petraio a tipo Rocky che non ce la faceva neanche a dire come si chiamava, dopo. Qualche gara l'ha vinta. Qualcuna l'ha persa. Un paio di coppe ce le ha, in casa. Il fatto curioso era che ha cominciato ad allenarsi per una questione fisica. E' tarchiatello, sembra uno scimmiotto. Ma siccome aveva anche fatto lavori pesanti, stava ben piazzato. E un tipo così, se è portato per uno sport del genere, non può che fare pubblicità alla palestra nella quale si allena. Ovviamente, che non pagava, eravamo in pochi a saperlo. Il fatto ammirevole era che veniva ad allenarsi, si scassava, poi si metteva a lavorare e, una volta finito, correva a casa a lavarsi. Perché si vergognava di consumare l'acqua. Il fatto che m da al cazzo è che una volta abbiamo combattuto insieme. Amichevolmente. Ho vinto io, sì. Ma lui mi ha colpita in faccia. E m'incazzo molto, quando lo fanno. Adesso è lì che sta. E aspetta che cominci il corso delle 15.00 per insegnare ai bambini. La molletta la lascia a casa.
Io e il rapinatore - Prima parte (8 agosto 2011)
Sai quando stai camminando e ti senti osservato, seguito? Che se ci pensi quella sensazione ti fa pure sentire un coglione perché magari non c’è nessuno che ti osserva, né qualcuno che ti segue ma tu quella sensazione ce l’hai e allora ti volti in continuazione giusto perché, se è una cosa, è bello avere ragione. Anche per godere se poi, a te stesso, puoi dire: “Visto? Io te l’avevo detto!”
Ecco, così. E nutri il tuo ego immaginario fatto di confusione, scarsa autostima e demenza, fondamentalmente. Ti lasci andare alle parvenze di perfezione, cominci a pensare di essere ‘uno buono’. Alle suddette si aggiungono le perfette perversioni, però, se una cosa così ti succede a Napoli. Metti che stai camminando per i fatti tuoi in una strada, di sera. Che non indossi qualcosa che possa attirare l’attenzione di qualcuno, che stai comunque stanca e sfasata perché hai da poco finito di allenarti e che di tutto puoi aver voglia (io con la parola tutto identifico il letto dopo un’ora di sacco pesante), tranne che di litigare con la gente, ascoltarla polemizzare. Cioè una cosa tipo che quando hai finito di sentire il rumore della doccia, vorresti che il mondo si mettesse in pausa, una specie di stand by solidale. Pure le opinioni intelligenti ti danno fastidio, pure quelle che vengono dette da persone intelligenti, pure le richieste ordinarie tipo prestare l’accendino, una penna, se sai che ore sono. Insomma, nun vuò avè a che ffà cu nisciun e sei contenta così.
E inutile che sbuffate e fate finta di girarvi con la testa dall’altra parte. Lo so che anche a voi è capitato di sentirvi così.
Comunque quella volta io così stavo: sospesa tra il se, perché, mah, vafancul’. E camminavo in direzione di piazza Vanvitelli, popoloso luogo dove avrei atteso il mio cavaliere senza testa venirmi a prendere per poi portarmi a casa e consentirmi di buttarmi a peso morto sul talamo, unico oggetto del mio desiderio. Tornando all’inizio, mi sentivo seguita. E non è che diedi tempo o dubbio alla mia sensazione. No. Io avevo ragione e sapevo di averla e volevo goderne subito.
Mi voltai e vidi uno che camminava dietro di me, poco distante. Qualche minuto dopo mi voltai nuovamente e questo tizio sempre dietro di me stava. Non un passo in più, non uno in meno rispetto a poco prima. “Mò io lo voglio pure capire che la strada questa è, - pensai – però chist’ putess’ pure accelerare il passo, attraversare e andare dal lato opposto, avere una sincope, un coccolone, svenire…” Continuai a camminare ignorando i pensieri che m’ingombravano la testa (avete fatto caso, a volte, a quanto siano invadenti, i pensieri? Cioè quanto più cerchi di non pensare a una cosa, tanto più ti ci fissi sopra.), o almeno facevo finta, finché poi non decisi che quella ragione che sapevo di avere la dovevo toccare per sentirmi bene. La dovevo guardare in faccia. E mi fermai fingendo di cercare le sigarette nello zaino, solo per vedere se si sarebbe fermato pure lui. Il tipo incolla e fa l’aria dello spaesato se lo guardo. “Vabbè, è confermato. Questo mi sta seguendo.” D’istinto mi poteva pure venire di afferrare il cellulare e chiamare i carabinieri, ma che cazzo andavo a dire? Che c’era un tipo che in base ai miei sospetti mi stava seguendo e che loro dovevano avvisare come minimo l’esercito e farlo intervenire con un mezzo corazzato per annientare quel pericolosissimo latitante sanguinario, altrimenti quello mi avrebbe costretta per mesi a rapporti contro natura e a nasconderlo dandogli pure da mangiare?
Non sarebbe stato credibile, vi pare? Considerando soprattutto che il soggetto in questione avrebbe potuto ascoltare la telefonata e vivere poi di risate alle mie spalle, che magari prima s’era fermato solo per fatti suoi. Decisi di sbrigarmela da sola, rallentai, il tizio mi raggiunse e quando era poco distante da me m’uscì così, come se fino a poco prima la frase che ho poi pronunciato fosse stata bloccata tra lo sterno e lo stomaco. Come un rutto dopo un bicchiere di birra:
«Scusi, ma lei è un rapinatore?»
Il tipo sgrana gli occhi, manco gli avessi chiesto se la mamma era quella che faceva le marchette con mia sorella nel 1993 (sono figlia unica.).
L’orgoglio professionale però prevale, cambia sguardo e mi dice con aria ancora un po’ confusa: «Veramente sì. Pecchè?!»
«Perché è meglio saperle subito, certe cose. Sei armato?»Comincio a dargli del tu, così il tipo si scioglie e entriamo in confidenza mentre continuiamo a camminare, in salita.
«Teng’ a mullett’», precisa lui tra un fiatone catarroso e l’altro mentre lascia tra le labbra consumarsi una sigaretta dalla marca ormai indecifrabile, ridotta ad un mozzicone. Io odio le armi da taglio. Mi fanno parecchio innervosire, ma questo al mollettaro non lo do a vedere, per non irritarlo. Un calcio in faccia che pure avrei potuto assestargli se m’avesse detto culo, non è esattamente come una coltellata nella panza. Visto che il mio obiettivo era quello di farci amicizia, fingo l’opposto. Smisurato interesse per coltelli, maceti e altre stronzate simili.
«Ah, si? Ma c’ha il manico in avorio? Com’è fatta?», chiedo.
Lui, riprendendo fiato e cercando di restare serio: «Jamm’ bbell’, jamm’. Io non tengo tiempo da peddere! Dammi quello che tieni addosso.»
Non nascondo che mi è preso un po’ il panico e mi sono sentita un’idiota, visto che avevo cercato pure di farmelo amico a ‘sto stronzo!
«Ma dai, stai calmo, oh! Mica voglio far perdere tempo alla gente, io! Sono una rapinata seria, io! Che ti credi? Comunque ho 10 Euro. Facciamo a metà?»
«Iccellulare noccelai?» , mi chiede.
«Quando vado ad allenarmi non lo porto mai.» , rispondo.
«Ah. Ma allora tu sei uscita dalla palestra che sta qquaggiù? Quella dove si fa bocs?», chiede lui incuriosito facendo caso alla scritta sulla maglietta che dice più o meno così: ‘Full contact fighter. Karate, kick boxing, muay thai. Mr. S. I. – le iniziali del mio maestro – via tal dei tali Napoli’.
«Si e sto stanca. Li vuoi ‘sti 10 Euro? Guarda rinuncio pure al caffè, ma questo tengo. Mi fai vedere la molletta?», chiedo per prendere tempo.
Lui alza gli occhi al cielo, chiedendo al pataterno se era stato effettivamente lui a venire da me o se lo stavo importunando io. La tira fuori e mi mostra orgoglione una cosa che avrà avuto la lama da 22 cm, col manico scuro e la sicura inserita. (Ho detto che non amo le armi da taglio, mica che non le conosco…)
«Uà, bella! – dico con gli occhi fintamente sgranati e l’espressione falsamente sorpresa. – La fai scattare? Vorrei vederla aperta…»
Lui, ormai prigioniero in una spirale di presunzione di plastica e osso pieno, spegne completamente il cervello e da sfogo alla sua totale inesperienza. Prova ad aprirla, ma non ci riesce. Una, due, tre volte. Niente. La cosa non scatta.
«Ma che è, rotta?» dico evitando di ridergli in faccia.
«NonèpoTTibbile. L’ho comprata aieri!»
«Ma dove l’hai presa?», fingo interesse.
«Da mano a mio cuggino», dice deluso.
«Vabbè, dai. Non importa.» – dico d'un fiato per levargli quella cosa da mano prima che potesse accorgersi della figura di merda fatta e, dal nervoso, schiattarmela nell’intestino crasso. Per intanto eravamo arrivati a piazza Vanvitelli, luogo dove contavo di trovare già il cavaliere ad aspettarmi. Appuntamento del quale il rapinatore non era certo a conoscenza. La sola speranza che aveva di potersi fare una cosa di soldi per la serata è stata calpestata da una coltello, diciamo, rotto e ulteriormente sfrantummata quando gli ho mostrato il portafogli, contenente davvero solo 10 Euro. La sua faccia triste mi ha quasi fatto pena. Aveva quasi gli occhi lucidi e cercava di nasconderli guardando da un’altra parte. Li puntava ovunque, ma non sulla mia faccia.
Io che sono nata col difetto suicida della curiosità e della compassione verso il prossimo (se dite quest’ultima cosa a qualcuno vi scanno dove state, state, ve lo giuro…) gli metto una mano sulla spalla e faccio: «Oh…» come a consolarlo. A lui scappa una bestemmia in aramaico e quando sta per cominciare a parlare arriva il cavallo su due ruote che mi porterà all’agognato castello dove, finalmente, dormirò il sonno dei giusti. Però…
…Però mò io voglio andare a leggere un libro coi miei tre gatti, sul letto. Continuate voi. Nel sondaggio sotto riportato ci sono diverse soluzioni circa la fine della storia che avete appena letto. Votate e vediamo che ne esce fuori. Questo fatto durerà 5 giorni (o anche una settimana, se avrò di meglio da fare) e la soluzione che avrà riscosso il maggior numero di preferenze verrà certamente pubblicata. Con l’effettivo finale della vicenda che potrebbe anche essere riportato tra le varie. Se non voterete non saprete mai com'è andata a finire e verrete mangiati dalla smania, divorati dalla curiosità. Vi uscirà il fegato da bocca e lo stomaco canterà Lacrime napulitane.
Ecco, così. E nutri il tuo ego immaginario fatto di confusione, scarsa autostima e demenza, fondamentalmente. Ti lasci andare alle parvenze di perfezione, cominci a pensare di essere ‘uno buono’. Alle suddette si aggiungono le perfette perversioni, però, se una cosa così ti succede a Napoli. Metti che stai camminando per i fatti tuoi in una strada, di sera. Che non indossi qualcosa che possa attirare l’attenzione di qualcuno, che stai comunque stanca e sfasata perché hai da poco finito di allenarti e che di tutto puoi aver voglia (io con la parola tutto identifico il letto dopo un’ora di sacco pesante), tranne che di litigare con la gente, ascoltarla polemizzare. Cioè una cosa tipo che quando hai finito di sentire il rumore della doccia, vorresti che il mondo si mettesse in pausa, una specie di stand by solidale. Pure le opinioni intelligenti ti danno fastidio, pure quelle che vengono dette da persone intelligenti, pure le richieste ordinarie tipo prestare l’accendino, una penna, se sai che ore sono. Insomma, nun vuò avè a che ffà cu nisciun e sei contenta così.
E inutile che sbuffate e fate finta di girarvi con la testa dall’altra parte. Lo so che anche a voi è capitato di sentirvi così.
Comunque quella volta io così stavo: sospesa tra il se, perché, mah, vafancul’. E camminavo in direzione di piazza Vanvitelli, popoloso luogo dove avrei atteso il mio cavaliere senza testa venirmi a prendere per poi portarmi a casa e consentirmi di buttarmi a peso morto sul talamo, unico oggetto del mio desiderio. Tornando all’inizio, mi sentivo seguita. E non è che diedi tempo o dubbio alla mia sensazione. No. Io avevo ragione e sapevo di averla e volevo goderne subito.
Mi voltai e vidi uno che camminava dietro di me, poco distante. Qualche minuto dopo mi voltai nuovamente e questo tizio sempre dietro di me stava. Non un passo in più, non uno in meno rispetto a poco prima. “Mò io lo voglio pure capire che la strada questa è, - pensai – però chist’ putess’ pure accelerare il passo, attraversare e andare dal lato opposto, avere una sincope, un coccolone, svenire…” Continuai a camminare ignorando i pensieri che m’ingombravano la testa (avete fatto caso, a volte, a quanto siano invadenti, i pensieri? Cioè quanto più cerchi di non pensare a una cosa, tanto più ti ci fissi sopra.), o almeno facevo finta, finché poi non decisi che quella ragione che sapevo di avere la dovevo toccare per sentirmi bene. La dovevo guardare in faccia. E mi fermai fingendo di cercare le sigarette nello zaino, solo per vedere se si sarebbe fermato pure lui. Il tipo incolla e fa l’aria dello spaesato se lo guardo. “Vabbè, è confermato. Questo mi sta seguendo.” D’istinto mi poteva pure venire di afferrare il cellulare e chiamare i carabinieri, ma che cazzo andavo a dire? Che c’era un tipo che in base ai miei sospetti mi stava seguendo e che loro dovevano avvisare come minimo l’esercito e farlo intervenire con un mezzo corazzato per annientare quel pericolosissimo latitante sanguinario, altrimenti quello mi avrebbe costretta per mesi a rapporti contro natura e a nasconderlo dandogli pure da mangiare?
Non sarebbe stato credibile, vi pare? Considerando soprattutto che il soggetto in questione avrebbe potuto ascoltare la telefonata e vivere poi di risate alle mie spalle, che magari prima s’era fermato solo per fatti suoi. Decisi di sbrigarmela da sola, rallentai, il tizio mi raggiunse e quando era poco distante da me m’uscì così, come se fino a poco prima la frase che ho poi pronunciato fosse stata bloccata tra lo sterno e lo stomaco. Come un rutto dopo un bicchiere di birra:
«Scusi, ma lei è un rapinatore?»
Il tipo sgrana gli occhi, manco gli avessi chiesto se la mamma era quella che faceva le marchette con mia sorella nel 1993 (sono figlia unica.).
L’orgoglio professionale però prevale, cambia sguardo e mi dice con aria ancora un po’ confusa: «Veramente sì. Pecchè?!»
«Perché è meglio saperle subito, certe cose. Sei armato?»Comincio a dargli del tu, così il tipo si scioglie e entriamo in confidenza mentre continuiamo a camminare, in salita.
«Teng’ a mullett’», precisa lui tra un fiatone catarroso e l’altro mentre lascia tra le labbra consumarsi una sigaretta dalla marca ormai indecifrabile, ridotta ad un mozzicone. Io odio le armi da taglio. Mi fanno parecchio innervosire, ma questo al mollettaro non lo do a vedere, per non irritarlo. Un calcio in faccia che pure avrei potuto assestargli se m’avesse detto culo, non è esattamente come una coltellata nella panza. Visto che il mio obiettivo era quello di farci amicizia, fingo l’opposto. Smisurato interesse per coltelli, maceti e altre stronzate simili.
«Ah, si? Ma c’ha il manico in avorio? Com’è fatta?», chiedo.
Lui, riprendendo fiato e cercando di restare serio: «Jamm’ bbell’, jamm’. Io non tengo tiempo da peddere! Dammi quello che tieni addosso.»
Non nascondo che mi è preso un po’ il panico e mi sono sentita un’idiota, visto che avevo cercato pure di farmelo amico a ‘sto stronzo!
«Ma dai, stai calmo, oh! Mica voglio far perdere tempo alla gente, io! Sono una rapinata seria, io! Che ti credi? Comunque ho 10 Euro. Facciamo a metà?»
«Iccellulare noccelai?» , mi chiede.
«Quando vado ad allenarmi non lo porto mai.» , rispondo.
«Ah. Ma allora tu sei uscita dalla palestra che sta qquaggiù? Quella dove si fa bocs?», chiede lui incuriosito facendo caso alla scritta sulla maglietta che dice più o meno così: ‘Full contact fighter. Karate, kick boxing, muay thai. Mr. S. I. – le iniziali del mio maestro – via tal dei tali Napoli’.
«Si e sto stanca. Li vuoi ‘sti 10 Euro? Guarda rinuncio pure al caffè, ma questo tengo. Mi fai vedere la molletta?», chiedo per prendere tempo.
Lui alza gli occhi al cielo, chiedendo al pataterno se era stato effettivamente lui a venire da me o se lo stavo importunando io. La tira fuori e mi mostra orgoglione una cosa che avrà avuto la lama da 22 cm, col manico scuro e la sicura inserita. (Ho detto che non amo le armi da taglio, mica che non le conosco…)
«Uà, bella! – dico con gli occhi fintamente sgranati e l’espressione falsamente sorpresa. – La fai scattare? Vorrei vederla aperta…»
Lui, ormai prigioniero in una spirale di presunzione di plastica e osso pieno, spegne completamente il cervello e da sfogo alla sua totale inesperienza. Prova ad aprirla, ma non ci riesce. Una, due, tre volte. Niente. La cosa non scatta.
«Ma che è, rotta?» dico evitando di ridergli in faccia.
«NonèpoTTibbile. L’ho comprata aieri!»
«Ma dove l’hai presa?», fingo interesse.
«Da mano a mio cuggino», dice deluso.
«Vabbè, dai. Non importa.» – dico d'un fiato per levargli quella cosa da mano prima che potesse accorgersi della figura di merda fatta e, dal nervoso, schiattarmela nell’intestino crasso. Per intanto eravamo arrivati a piazza Vanvitelli, luogo dove contavo di trovare già il cavaliere ad aspettarmi. Appuntamento del quale il rapinatore non era certo a conoscenza. La sola speranza che aveva di potersi fare una cosa di soldi per la serata è stata calpestata da una coltello, diciamo, rotto e ulteriormente sfrantummata quando gli ho mostrato il portafogli, contenente davvero solo 10 Euro. La sua faccia triste mi ha quasi fatto pena. Aveva quasi gli occhi lucidi e cercava di nasconderli guardando da un’altra parte. Li puntava ovunque, ma non sulla mia faccia.
Io che sono nata col difetto suicida della curiosità e della compassione verso il prossimo (se dite quest’ultima cosa a qualcuno vi scanno dove state, state, ve lo giuro…) gli metto una mano sulla spalla e faccio: «Oh…» come a consolarlo. A lui scappa una bestemmia in aramaico e quando sta per cominciare a parlare arriva il cavallo su due ruote che mi porterà all’agognato castello dove, finalmente, dormirò il sonno dei giusti. Però…
…Però mò io voglio andare a leggere un libro coi miei tre gatti, sul letto. Continuate voi. Nel sondaggio sotto riportato ci sono diverse soluzioni circa la fine della storia che avete appena letto. Votate e vediamo che ne esce fuori. Questo fatto durerà 5 giorni (o anche una settimana, se avrò di meglio da fare) e la soluzione che avrà riscosso il maggior numero di preferenze verrà certamente pubblicata. Con l’effettivo finale della vicenda che potrebbe anche essere riportato tra le varie. Se non voterete non saprete mai com'è andata a finire e verrete mangiati dalla smania, divorati dalla curiosità. Vi uscirà il fegato da bocca e lo stomaco canterà Lacrime napulitane.
venerdì 27 marzo 2020
Mi salvò la cazzimma (14 novembre 2011)
Fino a ieri notte non avevo internet in casa. E neanche il telefono. Non credevo che m'avrebbe preso così, ma ero letteralmente disperata. Anche perché pensavo che avrei dovuto sorbirmi una tre giorni con mia madre in casa e, vi assicuro, non è così semplice. Quantomeno internet non mi avrebbe istigata al suicidio, sarebbe stato una distrazione nei momenti di apoteosi biliare. Era zompato tutto. Non potevo nè chiamare, nè ricevere telefonate. Il computer, era ridotto a un soprammobile.
Anche per sfogarmi un attimo, ieri ho chiamato mio padre. Gli ho spiegato la situazione e lui, subito: «Ma mò se stai con Telecom io con qualcuno potevo provare a parlare - Giggino lavora al centro direzionale nel palazzo di quei piecuri e ha avuto il pocone di farsi voler bene dall'ultimo spazzino, al primo dirigente. Lo chiamano tutti per cognome e si telefonano anche alle feste comandate. La cazzimma, che grande cosa... - per vedere di fargli muovere un po' più presto il culo, che quelli tengono già la capa nel capitone, ma cu Fastweb io cu chi parlo appapà? Jamm' jà, vedi che si aggiusta tutto..»
Ho telefonato a Fastweb circa 10 volte in meno di 24h e tutto ciò che gli operatori sapevano dirmi era che occorrevano 72 ore per sistemare tutto. Prendevano tempo, insomma. Tutti. Tranne l'ultimo. Quello che ieri sera, quando ho chiamato giurando che avrei pianto se fosse stato necessario, mi ha detto che si trattava di un problema tecnico dovuto a qualche cavo che s'era scassato. E che doveva essere riparato o sostituito nella centralina. E che, quindi, doveva essere Telecom ad intervenire. Il cervello recepisce il messaggio. I neuroni iniziano a ballare la samba. La lampadina si accende. Richiamo mio padre e gli dico quel che poco prima mi è stato detto.
Risposta: «Mò m'o bbec' ije!»
Questo ieri sera. Stamattina, ore 7.00 circa. Nel meglio del sonno. Il telefono di casa squilla e io non riesco immediatamente a capire che avrei dovuto già cominciare a fare l'hula hula in ringraziamento perchè se il telefono squillava, 90 su 100 anche la connessione era tornata. Rincoglionita, rispondo: «Pronto?»
Dall'altra parte una voce di uomo: «Sì signò sono il tecnico della Telecòm (l'accento non è un errore di battitura, ma una fedele riproduzione della cronaca)!»
«A me non serve Telecom. Ho Fastweb. Grazie, buongiorno.» E metto giù.
Tre secondi dopo il telefono risquilla. La stessa voce dall'altra parte: «Nun attaccat' Signò, song' o tecnico d'a Telecòm! Sentite un attimo...»
«Ma vi ho già detto che non mi serve Telecom. Ho Fastweb. E adesso fatemi dormire un altro poco, per piacere...» E metto giù.
Cinque minuti dopo un'altra telefonata. Sempre sul telefono di casa. «Pronto?»
Dall'atra parte: «Terè!» Era mio padre tutto incazzato. «Ma che sang' e chit'è muort' 'e passat! Ci sta un amico mio che ti sta chiamando a casa per vedere se ti sente bene che ti hanno aggiustato il telefono e tu o' ttacc' a chiammata 'nfacc?!»
Guardo la cornetta che avevo in mano. Realizzo. Mi faccio piccola, piccola. Muoio di scuorno. «No, è che stavo dormendo..»
«Vedi che mò ti richiama. Verimm' e nun fa figur' e merd'!»
Il tecnico, effettivamente, mi ha richiamata. Mi ha chiesto di accendere il router wiifii, controllare le lucine, verificare che la connessione procedesse bene e compagnia bella. In sostanza, guasto riparato. Mò non è che mio padre sia il pataterno. Stamattina ha solo fatto una telefonata, questo madonna è andato alla centralina col mio numero di telefono di casa tra le mani, ho sostituito il cavo e poi hanno eliminato la prenotazione della riparazione dal database, credo.
Morale uno: fatevi gli amici in tempo di pace, che vi possono servire in tempo di guerra.
Morale due: sono salva. E questo dovrebbe interessarvi più di ogni altra cosa.
Morale tre: il pensiero di avere internet e mia madre in casa allo stesso tempo quasi mi mette di buon umore, la verità.
Morale quattro: la cazzimma di Giggino mi salva sempre il culo.
Anche per sfogarmi un attimo, ieri ho chiamato mio padre. Gli ho spiegato la situazione e lui, subito: «Ma mò se stai con Telecom io con qualcuno potevo provare a parlare - Giggino lavora al centro direzionale nel palazzo di quei piecuri e ha avuto il pocone di farsi voler bene dall'ultimo spazzino, al primo dirigente. Lo chiamano tutti per cognome e si telefonano anche alle feste comandate. La cazzimma, che grande cosa... - per vedere di fargli muovere un po' più presto il culo, che quelli tengono già la capa nel capitone, ma cu Fastweb io cu chi parlo appapà? Jamm' jà, vedi che si aggiusta tutto..»
Ho telefonato a Fastweb circa 10 volte in meno di 24h e tutto ciò che gli operatori sapevano dirmi era che occorrevano 72 ore per sistemare tutto. Prendevano tempo, insomma. Tutti. Tranne l'ultimo. Quello che ieri sera, quando ho chiamato giurando che avrei pianto se fosse stato necessario, mi ha detto che si trattava di un problema tecnico dovuto a qualche cavo che s'era scassato. E che doveva essere riparato o sostituito nella centralina. E che, quindi, doveva essere Telecom ad intervenire. Il cervello recepisce il messaggio. I neuroni iniziano a ballare la samba. La lampadina si accende. Richiamo mio padre e gli dico quel che poco prima mi è stato detto.
Risposta: «Mò m'o bbec' ije!»
Questo ieri sera. Stamattina, ore 7.00 circa. Nel meglio del sonno. Il telefono di casa squilla e io non riesco immediatamente a capire che avrei dovuto già cominciare a fare l'hula hula in ringraziamento perchè se il telefono squillava, 90 su 100 anche la connessione era tornata. Rincoglionita, rispondo: «Pronto?»
Dall'altra parte una voce di uomo: «Sì signò sono il tecnico della Telecòm (l'accento non è un errore di battitura, ma una fedele riproduzione della cronaca)!»
«A me non serve Telecom. Ho Fastweb. Grazie, buongiorno.» E metto giù.
Tre secondi dopo il telefono risquilla. La stessa voce dall'altra parte: «Nun attaccat' Signò, song' o tecnico d'a Telecòm! Sentite un attimo...»
«Ma vi ho già detto che non mi serve Telecom. Ho Fastweb. E adesso fatemi dormire un altro poco, per piacere...» E metto giù.
Cinque minuti dopo un'altra telefonata. Sempre sul telefono di casa. «Pronto?»
Dall'atra parte: «Terè!» Era mio padre tutto incazzato. «Ma che sang' e chit'è muort' 'e passat! Ci sta un amico mio che ti sta chiamando a casa per vedere se ti sente bene che ti hanno aggiustato il telefono e tu o' ttacc' a chiammata 'nfacc?!»
Guardo la cornetta che avevo in mano. Realizzo. Mi faccio piccola, piccola. Muoio di scuorno. «No, è che stavo dormendo..»
«Vedi che mò ti richiama. Verimm' e nun fa figur' e merd'!»
Il tecnico, effettivamente, mi ha richiamata. Mi ha chiesto di accendere il router wiifii, controllare le lucine, verificare che la connessione procedesse bene e compagnia bella. In sostanza, guasto riparato. Mò non è che mio padre sia il pataterno. Stamattina ha solo fatto una telefonata, questo madonna è andato alla centralina col mio numero di telefono di casa tra le mani, ho sostituito il cavo e poi hanno eliminato la prenotazione della riparazione dal database, credo.
Morale uno: fatevi gli amici in tempo di pace, che vi possono servire in tempo di guerra.
Morale due: sono salva. E questo dovrebbe interessarvi più di ogni altra cosa.
Morale tre: il pensiero di avere internet e mia madre in casa allo stesso tempo quasi mi mette di buon umore, la verità.
Morale quattro: la cazzimma di Giggino mi salva sempre il culo.
giovedì 26 marzo 2020
Rubare per mangiare (14 dicembre 2011)
Ieri l'Ansa ha riportato la notizia di due anziani della provincia di Teramo che hanno rubato in un supermercato cibarie per un valore di 70 Euro. Pasta, carne. Nascoste sotto il cappotto. Vivono soltanto con la pensione minima di lui. Quando sono arrivati i carabinieri che li hanno identificati hanno ammesso di aver rubato per mangiare, perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Sono riuscita oggi a reperire l'indirizzo di queste persone ed ho intenzione di raccogliere un po' di soldi per permettergli di fare la spesa. Almeno per la settimana di Natale. Magari, se gli gira, in quello stesso supermercato dove quella latrina del direttore (anziché pagargli da mangiare per almeno tre giorni) li ha denunciati, fregandosene. Chi vuol prendere parte alla raccolta può contattarmi in privato via email.
Inutile dire che sarà fatto tutto nella massima trasparenza. Posterò lo screenshot dei bonifici ricevuti e la scansione del vaglia postale che ho intenzione di inoltrargli entro la fine di questa settimana, al massimo lunedì prossimo. Non m'interessa essere più buona a Natale, né mi frega del Natale in sé. Ma visto che per adesso mangio ancora tutti i giorni, mi è difficile farlo senza pensare a loro che ieri, a casa, ci sono tornati senza cibo.
lunedì 23 marzo 2020
Elucubrazioni di un lavoratore (11 dicembre 2011)
L'altro giorno sono passata in terra natìa. Lo so che cosa state pensando e so anche quale espressione state assumendo.
Vi vedo.
Quindi vi conviene tatuarvi in faccia il concetto del pare brutto e fingere interesse.
Ad ogni modo ci sono andata perchè ogni tanto è anche giusto che veda i miei genitori.
Ma pure per assicurarmi che non gli manca nulla, diciamo.
Fatto questo con mammà, sono passata da Giggino. Mio padre.
Sapeva che sarei arrivata ed ha avuto il buon gusto, forse per la prima volta, di non farsi trovare con quel pigiama blu a pallini celesti che schifo a morte.
Se ne stava comunque buttato sulla poltrona a zappingare nervosamente col telecomando, mentre elogiava la vittoria del Napoli con un abbiamo continuo, ad ogni elucubrazione mentale da allenatore mancato.
Passando di canale in canale a un certo punto si è ipnotizzato davanti alla faccia di Mario Monti. Quello del governo tecnico, quello dei Rockefeller, dell'inizio della recessione, del decreto salva italiae sguarra mazzo agli italiani.
Mò voi dovete sapere che finchè Giggino segue la politica in Tv o la legge sui giornali è silenzioso. Lo fa senza commentare, nè dare pareri o bestemmiare.
Ma se solo si apre bocca e si cerca di dire una cosa tipo: «Papà ma tu che ne pensi di...», avete caricato il pupazzo. Avete messo il proiettile in canna al fucile a pompa. Avete dato la corda al bambolotto omicida di psyco. Non ci vogliono neanche i paccheri, per farlo parlare. Inizia da solo, come se fiatando si fosse premuto automaticamente un pulsante per telecinesi.
E anche l'altra sera, non è stato diverso.
«Quello, questo fatto, è solo colpa di Berlusconi. E' stato chillu nan' e merd' a dire continuamente che andava tutto bene, che l'Italia stava bene, che i negozi erano pieni, che i ristoranti erano pieni, che la crisi non c'era, che era un'invenzione dei comunisti, che i comunisti sono disfattisti, che era tutta una macchinazione della sinistra e compagnia bella.
E' colpa sua se mò ci ritroviamo con un debito da trenta milioni e ancora stiamo sul filo del rasoio che se non ci stiamo accorti facciamo la fine della Grecia dove chi guadagnava mille, mò piglia trecento!»
[Pausa]
Mano sbattuta violentemente sul bracciolo della poltrona.
Continuo monologo: «Ma vedi tu un poco la madonna se noi per un bastardo imprenditore di quella mamma merdaiola di chi gli è stramorto mò dobbiamo aprire il mazzo e farcelo mettere in culo, ma tu vedi un poco! Ma io veramente gli andrei a tirare 'e megjie pil' a chillu piezz' 'e rinal!»
[Pausa]
Ingiurie in successione: «Quello è cantaro.»
[...]
«Quello è un rinale!»
[...]
«Quello è una cacata di uomo!»
[...]
«Ma chill' adda fa 'na mala mort' chillu figl' 'e puttan'!»
[Sospiro. Pausa.]
Continuo escandescenza: «Quello aveva un solo obiettivo, quando è sagliuto al governo. Farsi le leggi a cazzi suoi per non andare in galera. Ma tanto quello in galera non ci andrà mai, è un vecchio, pure le galere lo schifano! Se però ci andasse - gesto circolare con la mano ben puntata in aria come a dire: "Patatè, pienzc' tu!" - e lo mettessero in una cella con un chiattone di 160 Kg io gli andrei a fare lo zabbaione tutte le mattine. Al chiattone."
Io, che fino a quel momento avevo ascoltato con interesse e che mi ero pure aggiustata gli occhiali sul naso tentando di acchiappare ogni frase, ogni parola che era uscita dalla sua bocca per conservarla gelosamente, ho accennato un timido: «Ma della manovra che ne pen...»
Lui aveva già ricominciato a parlare: «Mò la manovra, no? Era necessaria! Possono dire quello che vogliono loro, quegli altri quattro piecuri. Si doveva fare e basta! L'unica cosa è che io la penso come i sindacati. Non c'è stata equità. Con i chiattilli Monti c'è andato troppo soft. E' come se a noi, a culo secco, avesse detto di aprire le pacche. E a loro avesse consigliato prima il bidet con l'acqua calda, poi il luan e poi la vasellina - se fate robe simili, prendete nota -. Però sai dove mi è piaciuto assai? Sul fatto che vuole far avere gli aiuti alle aziende per favorire l'assunzione giovanile. E li manderà anche al Sud. Però le assunzioni devono essere con contratto a tempo indeterminato, non come fece quel ricottaro magnafranc' di Berlusconi che permise il contratto a tempo determinato e cioè lo sfruttamento del lavoratore.»
[...]
«Mò la prima coltellata ce l'ha data con la benzina. I benzinai mò si fanno le ville coi soldi nostri, si arricchiscono! Perchè lui ha detto che devono aumentare di tot. Ma secondo te nisciuno ce mette altri quattro centesimi per cazzi suoi? Eh! E vedi alla fine della giornata 'nu strunz e chill quanto s'abbusca! La pompa qua giù, già ha aumentato a 1.779 al litro. Tu a un crstiano che campa di stipendio e che prende la macchina per andare a lavorare, con un aumento simile, l'eccis'! Ma tu ti rendi conto - mi diceva mentre mi fissava con la carotide gonfia e la faccia abboffata e rossa - che vuol dire pagare tutti 'sti soldi di benzina? Mò voglio vedere se per quando aumenterà l'IVA o anche prima, i prezzi della benzina caleranno e chi li calerà. Quelli i benzinai sono una manica di ricottari pure loro...Secondo te qualcuno si prenderà la briga di rinunciare ai soldi a for' man' che già si sta facendo?!»
[...]
Altra mano sbattuta con violenza sull'altro bracciolo della poltrona. Poi l'affermazione clou: «Mannagg' a mort', ma chill ce vuless' Musulin'!»
Credo che in quel momento io abbia smesso di respirare e abbia avuto un arresto cardiaco che farà sentire le sue conseguenze tra qualche anno. Di sicuro l'aria si è fermata. Il tempo, si è fermato. Lo spazio è diventato piccolo, piccolo e tutta l'umidità si è asciugata in uno scarico di cesso immaginario. Ho guardato mio padre abbassandomi gli occhiali sul naso sperando in un eventuale continuo della frase. Si, perchè Giggino è rosso dentro, è rosso di cuore, di bombe fatte in casa negli anni '70 e di canne fumate davanti alle sezioni missine. E' rosso di mazzate date e ricevute, di strategie d'attacco organizzate con Lotta Continua e bestemmie anticapitaliste. Capirete che un'escalazione così, detta da uno così, è una cosa che fa riflettere...E' praticamente la voce della disperazione.
Lui mi ha vista e con l'espressione rassicurante ha detto: «Ma pure qualche cosa di sinistra, però!»
Io, subito: «Baffon!»
Lui: «Eh, tutti e due insieme a fare il giro delle pompe. Uno con la bottiglia di olio di ricino in mano e l'altro con la cartina d'a Siberia. Se è una cosa lo mandano in qualche gulac mentre si caga sotto e ce lo siamo levato dalle palle.»
[...]
«Non si tratterebbe di vendetta, ma di difesa del proletariato!»
[...]
«Mò tu lo sai che nonno è vecchio e che se gli chiedi che ha mangiato a mezzogiorno manco se lo ricorda. Che se ti vede, per niente non ti riconosce. Ma se gli domandi qualcosa della guerra o del ventennio fascista, è cazzo di raccontarti tutte le cose che non stanno scritte sui libri. Infatti dice che nel mercato dove la gente andava a fare la spesa, c'era una figura di Stato della quale non mi ricordo il nome. E 'stu maronna se ne stava vicino a una bilancia dove tu, una volta che avevi comprato, potevi andare a pesare e vedere se ti avevano fottuto anche solo di 50 gr. Sto parlando di un controllo statale, di una vigilanza. Se appuravano che avevi ragione, a quello se lo portavano proprio.»
[...]
«Non si tratterebbe di vendetta, ma di difesa del proletariato!»
[Pausa. Espressione nostalginca. Sospiro.]
Conclusione: «Se ci stava Baffone, mò... c'o cazz'!»
Vi vedo.
Quindi vi conviene tatuarvi in faccia il concetto del pare brutto e fingere interesse.
Ad ogni modo ci sono andata perchè ogni tanto è anche giusto che veda i miei genitori.
Ma pure per assicurarmi che non gli manca nulla, diciamo.
Fatto questo con mammà, sono passata da Giggino. Mio padre.
Sapeva che sarei arrivata ed ha avuto il buon gusto, forse per la prima volta, di non farsi trovare con quel pigiama blu a pallini celesti che schifo a morte.
Se ne stava comunque buttato sulla poltrona a zappingare nervosamente col telecomando, mentre elogiava la vittoria del Napoli con un abbiamo continuo, ad ogni elucubrazione mentale da allenatore mancato.
Passando di canale in canale a un certo punto si è ipnotizzato davanti alla faccia di Mario Monti. Quello del governo tecnico, quello dei Rockefeller, dell'inizio della recessione, del decreto salva italiae sguarra mazzo agli italiani.
Mò voi dovete sapere che finchè Giggino segue la politica in Tv o la legge sui giornali è silenzioso. Lo fa senza commentare, nè dare pareri o bestemmiare.
Ma se solo si apre bocca e si cerca di dire una cosa tipo: «Papà ma tu che ne pensi di...», avete caricato il pupazzo. Avete messo il proiettile in canna al fucile a pompa. Avete dato la corda al bambolotto omicida di psyco. Non ci vogliono neanche i paccheri, per farlo parlare. Inizia da solo, come se fiatando si fosse premuto automaticamente un pulsante per telecinesi.
E anche l'altra sera, non è stato diverso.
«Quello, questo fatto, è solo colpa di Berlusconi. E' stato chillu nan' e merd' a dire continuamente che andava tutto bene, che l'Italia stava bene, che i negozi erano pieni, che i ristoranti erano pieni, che la crisi non c'era, che era un'invenzione dei comunisti, che i comunisti sono disfattisti, che era tutta una macchinazione della sinistra e compagnia bella.
E' colpa sua se mò ci ritroviamo con un debito da trenta milioni e ancora stiamo sul filo del rasoio che se non ci stiamo accorti facciamo la fine della Grecia dove chi guadagnava mille, mò piglia trecento!»
[Pausa]
Mano sbattuta violentemente sul bracciolo della poltrona.
Continuo monologo: «Ma vedi tu un poco la madonna se noi per un bastardo imprenditore di quella mamma merdaiola di chi gli è stramorto mò dobbiamo aprire il mazzo e farcelo mettere in culo, ma tu vedi un poco! Ma io veramente gli andrei a tirare 'e megjie pil' a chillu piezz' 'e rinal!»
[Pausa]
Ingiurie in successione: «Quello è cantaro.»
[...]
«Quello è un rinale!»
[...]
«Quello è una cacata di uomo!»
[...]
«Ma chill' adda fa 'na mala mort' chillu figl' 'e puttan'!»
[Sospiro. Pausa.]
Continuo escandescenza: «Quello aveva un solo obiettivo, quando è sagliuto al governo. Farsi le leggi a cazzi suoi per non andare in galera. Ma tanto quello in galera non ci andrà mai, è un vecchio, pure le galere lo schifano! Se però ci andasse - gesto circolare con la mano ben puntata in aria come a dire: "Patatè, pienzc' tu!" - e lo mettessero in una cella con un chiattone di 160 Kg io gli andrei a fare lo zabbaione tutte le mattine. Al chiattone."
Io, che fino a quel momento avevo ascoltato con interesse e che mi ero pure aggiustata gli occhiali sul naso tentando di acchiappare ogni frase, ogni parola che era uscita dalla sua bocca per conservarla gelosamente, ho accennato un timido: «Ma della manovra che ne pen...»
Lui aveva già ricominciato a parlare: «Mò la manovra, no? Era necessaria! Possono dire quello che vogliono loro, quegli altri quattro piecuri. Si doveva fare e basta! L'unica cosa è che io la penso come i sindacati. Non c'è stata equità. Con i chiattilli Monti c'è andato troppo soft. E' come se a noi, a culo secco, avesse detto di aprire le pacche. E a loro avesse consigliato prima il bidet con l'acqua calda, poi il luan e poi la vasellina - se fate robe simili, prendete nota -. Però sai dove mi è piaciuto assai? Sul fatto che vuole far avere gli aiuti alle aziende per favorire l'assunzione giovanile. E li manderà anche al Sud. Però le assunzioni devono essere con contratto a tempo indeterminato, non come fece quel ricottaro magnafranc' di Berlusconi che permise il contratto a tempo determinato e cioè lo sfruttamento del lavoratore.»
[...]
«Mò la prima coltellata ce l'ha data con la benzina. I benzinai mò si fanno le ville coi soldi nostri, si arricchiscono! Perchè lui ha detto che devono aumentare di tot. Ma secondo te nisciuno ce mette altri quattro centesimi per cazzi suoi? Eh! E vedi alla fine della giornata 'nu strunz e chill quanto s'abbusca! La pompa qua giù, già ha aumentato a 1.779 al litro. Tu a un crstiano che campa di stipendio e che prende la macchina per andare a lavorare, con un aumento simile, l'eccis'! Ma tu ti rendi conto - mi diceva mentre mi fissava con la carotide gonfia e la faccia abboffata e rossa - che vuol dire pagare tutti 'sti soldi di benzina? Mò voglio vedere se per quando aumenterà l'IVA o anche prima, i prezzi della benzina caleranno e chi li calerà. Quelli i benzinai sono una manica di ricottari pure loro...Secondo te qualcuno si prenderà la briga di rinunciare ai soldi a for' man' che già si sta facendo?!»
[...]
Altra mano sbattuta con violenza sull'altro bracciolo della poltrona. Poi l'affermazione clou: «Mannagg' a mort', ma chill ce vuless' Musulin'!»
Credo che in quel momento io abbia smesso di respirare e abbia avuto un arresto cardiaco che farà sentire le sue conseguenze tra qualche anno. Di sicuro l'aria si è fermata. Il tempo, si è fermato. Lo spazio è diventato piccolo, piccolo e tutta l'umidità si è asciugata in uno scarico di cesso immaginario. Ho guardato mio padre abbassandomi gli occhiali sul naso sperando in un eventuale continuo della frase. Si, perchè Giggino è rosso dentro, è rosso di cuore, di bombe fatte in casa negli anni '70 e di canne fumate davanti alle sezioni missine. E' rosso di mazzate date e ricevute, di strategie d'attacco organizzate con Lotta Continua e bestemmie anticapitaliste. Capirete che un'escalazione così, detta da uno così, è una cosa che fa riflettere...E' praticamente la voce della disperazione.
Lui mi ha vista e con l'espressione rassicurante ha detto: «Ma pure qualche cosa di sinistra, però!»
Io, subito: «Baffon!»
Lui: «Eh, tutti e due insieme a fare il giro delle pompe. Uno con la bottiglia di olio di ricino in mano e l'altro con la cartina d'a Siberia. Se è una cosa lo mandano in qualche gulac mentre si caga sotto e ce lo siamo levato dalle palle.»
[...]
«Non si tratterebbe di vendetta, ma di difesa del proletariato!»
[...]
«Mò tu lo sai che nonno è vecchio e che se gli chiedi che ha mangiato a mezzogiorno manco se lo ricorda. Che se ti vede, per niente non ti riconosce. Ma se gli domandi qualcosa della guerra o del ventennio fascista, è cazzo di raccontarti tutte le cose che non stanno scritte sui libri. Infatti dice che nel mercato dove la gente andava a fare la spesa, c'era una figura di Stato della quale non mi ricordo il nome. E 'stu maronna se ne stava vicino a una bilancia dove tu, una volta che avevi comprato, potevi andare a pesare e vedere se ti avevano fottuto anche solo di 50 gr. Sto parlando di un controllo statale, di una vigilanza. Se appuravano che avevi ragione, a quello se lo portavano proprio.»
[...]
«Non si tratterebbe di vendetta, ma di difesa del proletariato!»
[Pausa. Espressione nostalginca. Sospiro.]
Conclusione: «Se ci stava Baffone, mò... c'o cazz'!»
domenica 22 marzo 2020
Basterebbe un soffio (24 novembre 2011)
Va bene, guarda, cerchiamo di stare calmi. Respiriamo profondamente, sediamoci ognuno sul suo divano, distanti kilometri, tappezzati diversamente, di colori opposti, collocati in stanze differenti tra loro e ragioniamo.
Ma non cominciare a ragionare prima che io abbia finito il mio sospiro: mi sentirei tradita e non vorrei più pensare insieme a te. Perchè il respiro, quando due ragionano anche se sono lontani, dev'essere unisonante. Come una specie di preludio, hai presente? Che poi magari la conversazione finisce anche, con un sospiro. Ma quella è un'altra cosa e noi per adesso non ci dobbiamo pensare. Ci deconcentrerebbe.
Sei pronto, allora?
Socchiudi la bocca, inspira forte e mentre espiri buttati sul divano.
Sbuffa facendoti sentire.
Comincia al mio tre.
[...] [...]
Adesso possiamo parlare. Anzi, no: parlo io. Tu stai a sentire, per ora. Il respiro che hai fatto poco fa, sapendo che anch'io ho fatto la stessa cosa nello stesso momento ti ha portato a pensare semplicemente che siamo due coglioni o ti ha, in un certo senso, liberato da un peso? Lo sai che, per quanto mi riguarda, tutt'e due? Mi ha fatto pensare che siamo due imbecilli e mi ha fatto anche vomitare parte di quello che ho in corpo, dico. Ma tu, in corpo, a parte succhi gastrici e materia anfibia costipata, hai qualcosa? Qualcosa per me, intendo. Qualcosa che sia solo per me, che possa vedere io soltanto, che sia indirizzata esclusivamente a me. Come una specie di lettera scritta con l'inchiostro che ti macchia il lato esterno della mano. No, non dico scritta con una penna che non funziona bene. Ma il contrario. Con una di quelle penne costose, comprate apposta per scrivere a qualcuno se stessi compresi. E puntualmente sono quelle penne che ti macchiano la mano, c'hai mai fatto caso? Con una penna da due soldi non succede quasi mai. Però sai una cosa? Io amo le penne che macchiano. Perchè il giorno dopo, anche se sei rincoglionitamente appena sveglia, sei costretta a ricordare che qualche ora prima stavi scrivendo a una persona. E ci sono poche cose di pari importanza, se ci pensi bene. Se ti metti a scrivere a qualcuno gli hai dedicato del tempo. Se lo fai di notte la valenza del pensiero è amplificata. Oltre al tempo ci stai perdendo il sonno. E il sonno perso non torna indietro. Esattamente come il tempo. Hai occupato uno spazio, gli hai dato vita con un foglio bianco, hai investito il tuo tempo, sacrificato il tuo riposo e spiattellato su carta un po' di cuore. Se io venissi a sapere che da qualche parte c'è stato qualcuno che mi ha scritto una lettera di notte andrei a cercarlo. Perchè non c'è nulla di più maestoso. Non c'è mazzo di fiori, non c'è canzone, non c'è viaggio, regalo che possa compensare un gesto simile. Tipo come sto facendo io per te, adesso. No, aspetta: non mi sto autocelebrando. Non sono il tipo. L'ho scritto soltanto per farti capire quello che intendevo. Si, lo so che avevi già capito. Ma io sono una alla quale piace puntualizzare i concetti che esprime, tanto è insicura di se stessa.
Così come sono sicura che mi stai leggendo.
Ma non so se hai capito che è con te, che sto parlando.
Ma non cominciare a ragionare prima che io abbia finito il mio sospiro: mi sentirei tradita e non vorrei più pensare insieme a te. Perchè il respiro, quando due ragionano anche se sono lontani, dev'essere unisonante. Come una specie di preludio, hai presente? Che poi magari la conversazione finisce anche, con un sospiro. Ma quella è un'altra cosa e noi per adesso non ci dobbiamo pensare. Ci deconcentrerebbe.
Sei pronto, allora?
Socchiudi la bocca, inspira forte e mentre espiri buttati sul divano.
Sbuffa facendoti sentire.
Comincia al mio tre.
[...] [...]
Adesso possiamo parlare. Anzi, no: parlo io. Tu stai a sentire, per ora. Il respiro che hai fatto poco fa, sapendo che anch'io ho fatto la stessa cosa nello stesso momento ti ha portato a pensare semplicemente che siamo due coglioni o ti ha, in un certo senso, liberato da un peso? Lo sai che, per quanto mi riguarda, tutt'e due? Mi ha fatto pensare che siamo due imbecilli e mi ha fatto anche vomitare parte di quello che ho in corpo, dico. Ma tu, in corpo, a parte succhi gastrici e materia anfibia costipata, hai qualcosa? Qualcosa per me, intendo. Qualcosa che sia solo per me, che possa vedere io soltanto, che sia indirizzata esclusivamente a me. Come una specie di lettera scritta con l'inchiostro che ti macchia il lato esterno della mano. No, non dico scritta con una penna che non funziona bene. Ma il contrario. Con una di quelle penne costose, comprate apposta per scrivere a qualcuno se stessi compresi. E puntualmente sono quelle penne che ti macchiano la mano, c'hai mai fatto caso? Con una penna da due soldi non succede quasi mai. Però sai una cosa? Io amo le penne che macchiano. Perchè il giorno dopo, anche se sei rincoglionitamente appena sveglia, sei costretta a ricordare che qualche ora prima stavi scrivendo a una persona. E ci sono poche cose di pari importanza, se ci pensi bene. Se ti metti a scrivere a qualcuno gli hai dedicato del tempo. Se lo fai di notte la valenza del pensiero è amplificata. Oltre al tempo ci stai perdendo il sonno. E il sonno perso non torna indietro. Esattamente come il tempo. Hai occupato uno spazio, gli hai dato vita con un foglio bianco, hai investito il tuo tempo, sacrificato il tuo riposo e spiattellato su carta un po' di cuore. Se io venissi a sapere che da qualche parte c'è stato qualcuno che mi ha scritto una lettera di notte andrei a cercarlo. Perchè non c'è nulla di più maestoso. Non c'è mazzo di fiori, non c'è canzone, non c'è viaggio, regalo che possa compensare un gesto simile. Tipo come sto facendo io per te, adesso. No, aspetta: non mi sto autocelebrando. Non sono il tipo. L'ho scritto soltanto per farti capire quello che intendevo. Si, lo so che avevi già capito. Ma io sono una alla quale piace puntualizzare i concetti che esprime, tanto è insicura di se stessa.
Così come sono sicura che mi stai leggendo.
Ma non so se hai capito che è con te, che sto parlando.
Le chiavi accanto alla porta (20 novembre 2011)
"Hai preso tutto, sei sicura?"
"Si, non dimentico niente." , ho risposto guardandomi intorno e contando gli scatoloni che avevamo appena finito di trasportare nella casa nuova. Li contavo, per essere sicura che non ne mancasse nessuno. Loro se ne stavano lì, inermi nel loro odore di cartone pressato che aveva già invaso l’ingresso e io li fissavo come inebetita.
"Ma può mai esserci la mia vita, lì dentro?" , mi chiedevo. "Possono mai, quelle scatole, contenere le parole degli ultimi dieci mesi, le emozioni, le delusioni, i giorni, le notti insonni, gli istanti di felicità che ho vissuto?” Più me lo domandavo, più restavo immobile davanti a loro. Sapevo che di lì a poco avrei dovuto aprirli e sistemare tutto negli spazi predefiniti, ogni elemento nella sua piccola stanza. Ma mi facevano quasi paura, come se stessi rischiando di non trovarci dentro le stesse cose che avevo imballato e traslocato. E’ incredibile il potere che possiede una scatola chiusa. Crea angoscia, stupore, gioia. Anche tutto insieme. Ti fa vivere il gusto violento dell’attesa, te lo fa assaporare.
“Oh, tutto bene?” , mi ha chiesto lui vedendomi ferma e silenziosa.
“Si, tutto bene”, gli ho risposto cominciando a guardarmi attorno senza però avere il coraggio di incrociare i suoi occhi. Avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava, se lo avessi fatto. Ma tanto lui sapeva e io m’illudevo di poter controllare i suoi pensieri. La nuova casa è meno colorata della precedente. E’ spoglia, sembra più autunnale, quasi monocromatica. L’altra era paragonabile alla primavera. Vivace, colorata, frizzante, allegra, ma senza esagerare. Io avevo montato le tende color corallo e deciso di arredarla tutta da Ikea, con colori pastello che magari facevano un po’ a cazzotti col mio cinismo ma si adattavano bene al quartiere, tutto fiori e profumo.
“Cominciamo a lavorare? Tu mi dai una mano, giusto?” Il lavoro esorcizza i pensieri, li mette a bada. Li fa stare accucciati in un angolo e, se sei fortunato, gli da anche un paio di schiaffi sulla collottola affinché non si muovano per un po’.
“Ma certo che ti aiuto. Sto qui apposta.”
Abbiamo scartato tutto. Sistemato ogni cosa in silenzio. Non c’era bisogno di parlare. Lui sapeva. E io pure. Abbiamo sballato, aggiustato, collocato, spostato, eliminato, adattato. Tre ore di lavoro per ritrovarmi una sistemazione che, alla fine, mi sembrava vuota comunque. La mia insoddisfazione riempiva l’aria. La tranciava in due, come un macete. E ho lasciato che la spaccasse a metà, buttandomi a peso morto sul divano mentre lasciavo andare un gemito di stanchezza e noia. Lui era in piedi davanti a me, con uno straccio tra le mani e le faccia un po’ sporca di polvere. Mi guardava e sorrideva, con tenerezza. Come se ci fosse qualcosa che lui sapeva, un’ovvietà palese che io non notavo e che mi avrebbe aiutata, se fossi stata un po’ meno presa da me stessa, a non sentirmi un pesce fuor d’acqua.
“Ce lo facciamo un caffè?”, mi ha chiesto spezzando l’imbarazzo che mi dipingeva la faccia.
“Si, ora vado.” , ho replicato cercando di alzarmi dal soporifero divano nel quale ero sprofondata.
“No, stai. Lo faccio io.”
Lo stavamo bevendo, tutti e due seduti al tavolo della cucina, in silenzio. Ad ogni sorso che portava alla bocca vedevo i suoi occhi illuminarsi, sorridermi fino a non poterne più. Mi ha fissata ancora una volta ed è scoppiato in una risata fragorosa, potente, contagiosa. Gli chiedevo continuamente perché stava ridendo così, ma lui non riusciva a rispondermi tanto era preso dalla comicità della situazione che, per me, era solo ridicolizzata dal suo comportamento. Io ho un difetto che li batte tutti: se c’è una persona o un contesto che mi sta sulle palle, non riesco a fingere che vada tutto bene. Mi si legge in faccia, il fastidio. Ho provato a recitare, veramente. Ma non ci posso, è più forte di me. E preferisco non fingere perché altrimenti sbotto di colpo e poi esagero. L’espressione seccata è stata puntuale,anche in quell’occasione. Lui l’ha vista. Vede sempre tutto di me. Talvolta ancor prima che io stessa me ne renda conto. Continuando a sorridere si è alzato dalla sedia sulla quale si era ciondolato un attimo prima ridendo, ha fatto due passi verso la tapparella, l’ha alzata ed ha aperto un’enorme vetrata che non sapevo nemmeno ci fosse. Dalla vetrata si accede a un’accogliente terrazza dalla quale si vede anche il mare.
“Ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro. L’importante è avere la pazienza di accorgersene…”, mi ha sussurrato all’orecchio mentre ammiravo con le braccia poggiate sulla ringhiera la vista meravigliosa che mi avrebbe fatto compagnia nei giorni a venire.
“E poi questa è casa tua, eh! Mica cotica! ...Ma le chiavi dell’altra? Sono l’unica cosa che non abbiamo sistemato da nessuna parte. Dove le metterai?”
Ci ho pensato un po’ e poi gli ho risposto: “Appese con un gancetto alla parete della porta, ben visibili. Se le chiudo in un cassetto me ne dimentico e non mi va.”
“Ok, io vado. Se hai bisogno chiama. Non farti problemi. Comunque verrò a trovarti appena posso.”
Ogni volta che ci vediamo il mio AlterEgo mi saluta così: “Verrò a trovarti appena posso.”
E ogni volta mi regala un pezzetto di cuore in più.
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