mercoledì 16 marzo 2011

L'indifferenza uccide! *Racconto*

Erano giorni che non mi cagava neanche di striscio. Il bacio di mattina poco prima di uscire c'era sempre, ma tra l'abitudine e l'intenzione c'è la differenza di un baratro. Poi quelle labbra sulla guancia non le sentivo neanche più tanto erano spente. Alcune volte sarebbe stato meglio ricevere uno schiaffo, un pizzicotto forte, uno spintone. Qualcos'altro che però poteva permettermi di sentirmi viva, sentire che ancora gli fregava qualcosa di me nonostante la monotonia dei sette anni passati insieme. Già, sette. Troppi se di noia. Io sono sempre stata una tollerante, mi adeguo con molta facilità alle situazioni. Aderisco camaleonticamente alle persone, ma l'ultimo periodo proprio non lo reggevo. Anche a cena era diventato pesante, insopportabilmente apatico e silenzioso. Ma non di quel silenzio che ti fa pena o tenerezza. Di quello che ti da sui nervi tanto che prenderesti la padella colma di olio bollente e gliela suoneresti in testa. Se spiccicava qualche parola lo faceva per lamentarsi della giornata. Problemi, problemi, problemi. Non che voglia sembrare superficiale, ma porca pipetta! Ho meno di 30 anni e sto soltanto facendo da infermiera se lui sta male o da sacco vuoto da riempire se ha da sfogarsi per qualcosa. Anche se ultimamente neanche quello più accade. Ho provato tanto a spronarlo a vivere. Ho perso il conto di quante occasioni abbiamo perso e quante volte gli ho proposto di uscire. Che ne so, una pizza, un cinema, una birra al centro storico, semplicemente due passi. Ma lui niente. Un marmo. Tornato a casa s'infilava le pantofole, accarezzava il cane e l'unica domanda che mi faceva era: «Tra quanto si cena più o meno?» Da ingegnere considerava qualsiasi opzione tecnicamente valida e quel 'più o meno' per me era diventato come un mattone suonato tra naso e denti. Racchiudeva tutta la mancanza di considerazione che aveva per me, visto che ogni giorno quando lo sentivo attorno all'ora di pranzo, gli dicevo già cosa avevo intenzione di cucinare per la cena o se avevo pensato di mangiare una pizza. Quindi sapeva anche se avrebbe già trovato o meno il piatto pronto. Ma era puntualmente come parlare con un muro di gomma. Di quelli che al momento ti ascoltano, ma che poi ti ritorcono contro le cose come un boomerang. Ho provato con calma e gentilezza a fargli notare che se non si emozionava più per le cose forse ce ne erano altre che non andavano, gli ho detto in più occasioni che il suo non era un atteggiamento normale. Lui mi ascoltava, anniuva e poi piazzava nuovamente lo sguardo sul giornale, sul Pc o la televisione. Come se io non avessi parlato affatto. Per un periodo ho anche cercato di capirlo, immaginando una stancante giornata lavorativa, piena di pensieri, di cose da fare, problemi da risolvere e cominciai seriamente a sentirmi una stronza egoista che invece vorrebbe uscire, divertirsi mentre lui pensava sempre e soltanto al mio e al suo sostentamento. «In effetti, materialmente parlando, non mi fa mancare nulla» pensavo. Più mi convincevo di questo, più mi accorgevo che mi stavo spegnendo. Stavo diventando arida di emozioni e vedevo la mia vita desertificarsi. Sentii suonare il campanello d'allarme quando a letto lui mi augurava una pigrissima buonanotte si voltava dall'altra parte e cominciava a ronfare, ed io ne ero felice. Anzi, non felice. Indifferente. L'indifferenza uccide e io stavo ammazzando me stessa. Iniziai quindi a rivalutarmi come donna, a valorizzare pregi fisici e a neascondere i difetti provocandolo in qualsiasi maniera possibile, anche oltre la decenza ma da parte sua non c'era interesse: continuava a voltarsi dall'altra parte per dormire senza notare nè il completino nero, nè le autoreggenti, senza sentire il profumo che indossavo. Niente. La parola che camminava a braccetto con l'uomo che mi stava accanto era niente. E prima che si appropriasse anche di me dovevo fare qualcosa. Sperai allora di avere una rivale e frugando tra le tasche delle giacche contavo di trovare qualcosa, una prova del suo adulterio. Ne sarei stata contentissima. Meglio sapere di essere cornuta che essere consapevole di convivere con un cadavere! Non trovai nulla. Nè una ricevuta, nè una saponetta d'albergo, nè un bigliettino da visita. Niente di niente. Delle due l'una: o non aveva lasciato tracce oppure l'altra donna era esistita soltanto nella mia testa. Decisi di mollarlo. Ricordo che quella mattina feci varie prove davanti allo specchio per provare a recitare il discorso che m'ero preparata il giorno prima, ma un po' mi dispiaceva lasciarlo. Del resto ero anche stata felice con lui i primi tempi, quando si faceva l'amore e nient'altro, quando avevamo sogni, aspettative, progetti che sono rimasti soltanto parole. La sera, come ogni sera, lui tornò a casa. Presi coraggio e fui proverbialmente sottile quanto al 95ma barrata: «Ti lascio. Da questo momento in poi non stiamo più insieme. Vado a vivere da un'amica, ho già organizzato tutto e ho le borse già pronte. Ti ho lasciato la cena in forno. Devi soltanto riscaldarla.» Mi aspettavo rabbia, dolore, disapprovazione, preghiere tese sulla porta mentre cercava di ritirarmi in casa, dichiarazioni d'amore in ginocchio che mi avrebbero fatto sentire una latrina sporca...macchè. Si limitò a dire: «Beh, mia cara...Se non ci stai più bene qui non posso trattenerti.» E mi sferrò un altro cazzotto anche se me ne andai con la convinzione che mi avrebbe chiamata. Sì, certo. Mi avrebbe svegliata nel cuore della notte supplicandomi di tornare, dicendomi in lacrime che gli mancavo. Me lo sarei visto sotto la finestra con un complesso neomelodico al seguito mentre lui stesso mi cantava una serenata romantica. Ne ero certa e varcai la soglia senza voltarmi indietro: sarebbe stato lui a chiedermelo con gli occhi pesti di una notte insonne! Passarono i giorni, le settimane. Fissavo il cellulare che squillava soltanto quando mi telefonava mia madre per chiedermi se mi mancava qualcosa e se stavo bene. Lui no, mai. Neanche per sapere come procedeva nella nuova casa, come stavo da single dopo sette anni. Nulla, mai un cenno di vita. Trascorsero lentamente sei mesi prima di incontrarlo di nuovo. Per caso, come la prima volta. Solo che non eravamo nello stesso ristorante, ma nello stesso centro commerciale per fare un po' di spesa. Lo vidi trafugare tra gli scaffali. Guardare i prodotti con aria stanca e scegliere quelli che avrebbe scelto anche mesi prima. Gli stessi che compravo io anche se neanche me lo chiedeva più. Io sapevo. Lui sapeva che io sapevo e andava così. Feci qualunque cosa per farmi notare. Dopo tutto doveva essere lui a salutarmi per primo! Gli andai distrattamente incontro guardando da un'altra parte, facendo appositamente urtare i carrelli. Mi salutò quasi come se nulla fosse, ma accennò un sorriso: l'unico dopo tanto tempo. Gli chiesi come stava e se aveva ripreso in mano la sua vita, anche dal punto di vista sentimentale. Mi disse che non stava con nessuna e che era rimasto da solo da quando me ne ero andata. Mi fece un po' tenerezza. Lo immaginai seduto a tavola da solo a mangiare qualcosa di precotto, insipido, col piatto colmo di nostalgia. Mi diedi della puttana, tornata a casa. Guardandomi allo specchio mi domandai dove volevo arrivare con la libertà che avevo riconquistato, che cazzo speravo di ottenere e feci un bilancio. Mi sentivo sola con la mia libertà? Avevo effettivamente concluso qualcosa? La verità è che mi sentivo più sola di prima e rivederlo me lo fece capire nitidamente. Come quando hai il sospetto di qualcosa, poi questo qualcosa accade e hai l'illuminazione. Ero stata una stupida e poi magari lui era anche cambiato durante la mia assenza. Dindin! Dindin! Sms - Paolo: "Una birra in centro? Ce la fai tra un'ora?" Ecco, era cambiato. Era forse ritornato quello che conoscevo, che prendeva l'iniziativa, che era brillante e divertente. Quello del quale mi ero innamorata sette anni prima. Forse era stato il lavoro a renderlo noioso e apatico, ma quando accettai quell'appuntamento ero sicura che l'avrei aiutato a migliorare ancora, a recuperare anche l'entusiasmo per le piccole cose. Lo spirito femminile da crocerossina non si smentisce mai! Chiacchierammo per circa due ore praticamente di tutto come se - e di fatto era così - avessimo avuto qualcosa da recuperare. Parole non dette e sorrisi non ricambiati. «Posso tornare a casa con te?» Glielo dissi quando mi accompagnò alla macchina. Lui fece spallucce (gesto che avrebbe dovuto dissuadermi, ma avevo la visuale offuscata dalle risate delle due ore precedenti e quindi non fui obiettiva) e disse: «Se vuoi...» Ero felice! Avevo riottenuto il mio Paolo e mi accingevo a tornare a casa con lui. Magari avremmo cambiato casa, adottato un altro cane, fatto un viaggio o magari un figlio! Avevo la testa colma di cose, di sogni, di speranze che magari nutriva anche lui. Almeno questo era quel che pensavo. Nell'arco dei primi tre mesi venne spazzato via tutto da un soffio di vento. Tornato a casa si toglieva la giacca, le scarpe, indossava le pantofole, accarezzava il cane e mi chiedeva più o meno a che ora si cenava. Ogni singola sera. Esattamente come allora provavo a proporre un'uscita, un po' di vita comune ma lui rispondeva puntualmente che non ne aveva voglia, che stava bene così, che ne avevamo già parlato in passato, che voleva riposare e che se non mi stava bene sapevo dov'era la porta. «Te ne sei già andata una volta. Mia cara, se non ci stai bene qui non posso certo trattenerti...» L'amore diventò odio. Profondo più di un pozzo nero. Se me ne fossi andata lui non avrebbe provato niente. Nè nel bene, nè nel male. Se fossi rimasta, lo stesso. L'unico modo che avevo per recuperare la mia dignità era vederlo morire. Non ho mai amato le perdite di tempo quindi non scelsi una morte cruenta da attuare attraverso la tortura, no. Semplicemente veleno per topi. Un massiccia dose nel risotto e il gioco era fatto. Sarebbe morto dopo un paio d'ore, questo sì. Ma se volevo un effetto immediato dovevo ricorrere al soffocamento o ad un colpo di pistola, ma sarebbe stato troppo rumoroso quanto troppo complicato. Non credevo che procurarsi un'arma fosse così difficile... I quattro formaggi avrebbero coperto l'odore leggero del veleno e lui sarebbe crepato tra sofferenze indicibili. Sì, deve morire! Ha rubato i migliori anni della mia vita, mi ha trattata praticamente come una cretina, una che non avrebbe dato importanza a se stessa. Lo guardai mangiare avidamente e più lui ingurgitava più io pregustavo il momento. Talvolta non esiste godimento maggiore, se non quello dato dalla vendetta. Cominciò a sentirsi male poco dopo. Il veleno fu più rapido di quello che credevo. Durante la crisi respiratoria mi chiese perchè. Aveva già capito. Intelligente lo è sempre stato, su questo non ci sono dubbi.
«Perchè...Io non ti ho mai fatto niente...»
«E' proprio questo, il punto. Tu non hai fatto niente. E le emozioni? Dove le metti? Sei stato governato soltanto dall'indifferenza negli ultimi anni. E quel che è peggio è che mi stavi anche contagiando...Il mondo non necessita di persone come te. Serve gente viva o comunque gente che si sforza di esserlo. Tu nutri indifferenza. La stessa che proverò io nel vederti crepare. Potrei fare qualcosa, se adesso ti portassi all'ospedale forse ti salverebbero. Ma voglio farti notare, caro, fino a che punto l'indifferenza altrui può portare realmente a morire.»

13 commenti:

  1. Molto molto bello il racconto, Terè.

    St'ingegnere, purtroppo per la sua lei, rispecchia il detto: "L'ingegnere non vive, funziona". E, comunque, l'atto finale è per me pura giustizia :)

    Raf

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  2. Vi presento l'autore del finale. O meglio, colui che l'ha scelto tra tre possibili: Raf!

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  3. Brava.
    Sul finale/vendetta avrei indugiato un po' di più.

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  4. Io piuttosto gli avrei scarnificato la faccia e masticato le mani...

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  5. Devi partecipare ai quei concorsi. Che tu stia narrando, e non solo scrivendo, è evidente :)

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  6. PietroFratta: se con quel 'narrando' intendi che questa storia potrebbe avere un margine di autobografico no, eh. Non ce l'ha...

    Grazie, comunque. Leggo un complimenti tra le righe e mi fa mooolto piacere.

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  7. Piacevole lettura, molto intensa la sofferenza di chi spera, è rassegnata, ama e non vuole fallire. Si illude e crede che la propria vita sia ancora pronta ad essere salvata.

    Non giudico la conclusione né la narrazione, ma è bella la descrizione e molto intensa la vita di questa donna. Mi ricorda molto una persona che conosco da vicino

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  8. Speravo in un finale del genere! ahahaaahhaha

    Brava!

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  9. No, intendevo dire quasi il contrario. E cioè che puoi narrare, scrivere storie, racconti romanzi, e non soltanto scrivere usando le parole.
    Puoi fare... letteratura, ecco.
    Poi magari mi sbaglio

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  10. Sarebbe finita così... se non avessi deciso di stare da solo... le persone come noi.. effettivamente non meritano molto di vivere.

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