settembre 07, 2025 -
La stanza della cura,La stretta di mano col mondo
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La stanza della cura,La stretta di mano col mondo
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La stretta di mano col mondo
Mi sono spesso chiesta, diventando adulta, come me ne sarei andata. Se sarei morta nel sonno (lusso), se con un incidente stradale, se con un infarto o una malattia infame. Mi incuriosiva sapere se avrei avuto qualcuno accanto o se sarei stata sola. Adesso, ogni giorno che il karma ha deciso di regalarmi, mi sento viva. Viva come non lo sono mai stata. Ogni risata fatta, ogni sorriso di mio figlio, ogni bacio del mio cane, ogni ricordo bello che mi trovo a rivivere nella mia mente, sono un dono. Non credevo di poterlo dire, ma sventolo davvero la bandiera dei sopravvissuti. E non perché con le chemioterapie ho zittito il cancro, ma perché mi sono rialzata dal terreno col fango. Ad ogni pugno o schiaffo ricevuto dal mio ex compagno che pesavano inaspettati peggio di un tradimento fisico, ad ogni cicatrice che mi ha lasciato addosso (che non coprirò mai, ma sfoggio come un tatuaggio meraviglioso per ricordarmi ogni giorno che prima di tutto - a differenza di prima - ci sono io); sopravvissuta dopo aver visto mia madre trasformarsi a causa della demenza, che è arrivata inaspettatamente senza avvisare, dopo averle comunque per anni fatto da mamma io stessa. Sopravvissuta alla perenne e sorprendente assenza di mio padre, che mi ha fatto crescere con la paura costante dell’abbandono e la convinzione di non essere abbastanza. Sopravvissuta alla diagnosi inattesa di mio figlio e al suo modo di comunicare, completamente diverso dal mio. Ecco, quella sì che è stata un macigno. Sopravvissuta al dolore delle perdite, delle sconfitte, dei tentativi andati male. Alla burocrazia di un sistema che non tutela noi genitori, a gente gretta che non ha empatia o umanità. Sopravvissuta allo zero assoluto. Quando non avevo nè casa, nè soldi e un bambino di tre anni per mano. Poi bum, il freno a mano straordinariamente tirato mentre ero in corsa e avevo costruito un abbozzo di dimensione. Avevo trovato il mio posto nel mondo e l’ho visto sgretolarsi, andare in pezzi, diventare briciole. Allora mi sono rialzata un’altra volta, più sporca di fango di prima. Mi sono pulita la faccia e ho ricominciato a camminare. Si, è vero. Le gambe fanno male. Zoppichi, ti fermi e poi riparti. Dopo aver investito tutto: anima, cuore, corpo e cicatrici in persone che poi ho visto passare inermi seduta sulla sponda del fiume, ti rendi conto che nessuno sa cosa succederà domani. Nè con la malattia, benché meno con la tua vita. L’incertezza ti logora, ma ti aiuta a vivere perché l’hai plasmata, trasformata in quel “lo faccio subito” che un tempo era “ho tempo”. È quello che non sai che ti spaventa. Io non so se il cancro tornerà, se mi toccherà il trapianto, se dovrò guardare mio figlio da dietro un vetro. Ma so che quel minimo, minuscolo barlume di possibilità che c’è che questo sarà il mio modo di andarmene, mi dà forza. La speranza di poter organizzare tutto prima. La possibilità di salutare, sorridere e abbracciare. Preparare. Senza sorprese. Per una volta.Oggi ho visto questo tramonto che ha i colori della gioia, del calore. È stato come una stretta di mano col mondo che mi ha dato vita, ancora.
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