La cardarella è poliglotta. Translate!

13 lug 2024

Perle a chi ha il cancro (parte 5)



Ieri giornata al mare con mio figlio. Sarei voluta andare un po’ più lontano, ma il giorno prima non sono stata benissimo per cui ho optato per il solito posto. La famiglia che gestisce lo stabilimento mi conosce da anni, è molto affezionata ad Alessandro e fa parte di quella schiera di persone cui ho visto la paura negli occhi quando gli ho detto della malattia. Insomma, ombrellone in prima fila prenotato su whatsapp il giorno prima. Ci sistemiamo, pranziamo comodamente e poi Ale va in acqua: “Vai, vai. Due minuti e ti raggiungo.” Stavo leggendo un articolo che riguarda il ritrovamento di quel latitante a casa sua (dilettante… Lo stato l’ha concesso solo a Provenzano. Tu chi si, o' Papa?) quando è arrivata una tizia con l’aria seccata, passeggino al seguito con dentro bambina di circa 30 anni e vecchia bionda di 80 con tuppo annesso:

“Buongiorno. Questo ombrellone è nostro!”
“Mi scusi, non ho capito.”
“Si, noi abbiamo l’abbonamento. Si deve spostare, le hanno dato un ombrellone già affittato.”
“Ah. Mi sposto subito, mi scusi non lo sapevo. Il tempo di prendere tutto.”
Tutto ciò mentre la vecchia col tipo inveiva contro l’organizzazione del Lido, la croce rossa, la guardia costiera. Tra una bestemmia e l’altra, con me ancora lì che raccoglievo borse e ciabatte, la vecchia mi ha fissata per l’ennesima volta e ha detto al bagnino:

Mò disinfetta tutto a spirito altrimenti nun m’assett ca sott.

Il bagnino ha sgranato gli occhi. Io li ho chiusi. E sono rimasta sorprendentemente calma.

Signora stia tranquilla, non ho malattie infettive.”, le ho detto sorridendo.

Mi sono alzata e mi sono spostata due postazioni più a destra. I gestori del lido non sapevano come scusarsi, io ho provato pena. Non per me, ma per la vecchia. Ecco, una del genere e la tipica persona che deve stare sempre bene. Non deve mai avere un problema di salute, in un reparto oncologico non dovrà mai metterci neanche il naso. Perché finirebbe col vessare quel personale medico che a me ha regalato umanità e sarebbe costretto a darla anche a lei. Noi andremo al mare anche oggi, siamo quasi pronti. E io, anche oggi, ci andrò senza foulard in testa.

3 lug 2024

Ultima

Ho preso la metropolitana mercoledi 3 luglio verso le 9.10, dopo averla aspettata 15 minuti. In banchina non riuscivo a stare seduta, come se il treno che stavo aspettando mi avrebbe portata a vedere la caletta di mare più azzurra che si possa immaginare. L’ho aspettato tanto, quel 3 luglio. Quella mattina ho preso la mia cartellina rosa, mi sono messa in foulard in testa e ho aspettato con trepidazione il treno che mi portasse in ematologia. Li ho visto le stesse facce stanche di sempre. Più o meno le stesse che da novembre scorso hanno fatto ogni volta un mezzo cenno con la testa, come un saluto. Quando hai qualcosa in comune con qualcuno, specialmente il dolore, lo riconosci e non c’è bisogno di dire qualcosa. A volte credo che si preferisca il silenzio perché si ha paura di interrompere l’elaborazione del dolore stesso. Paura di interrompere l’elaborazione della paura, del “e domani?”. 
Quindi ognuno sta con i suoi ferri e un lungo gomitolo di emozioni da tirare a maglia. 
I parenti, quelli no. Quelli fanno casino. Chiedono, domandano, si siedono al posto dei pazienti, non tengono mai la mascherina. Fanno bordello come se volessero sempre sottolineare che lì ci sono anche loro. E sempre accanto ad un paziente silenzioso. E stanco. Con gli stessi segni sotto gli occhi che ho io, le mie stesse palpebre e caviglie gonfie. Le mie stesse difficoltà di equilibrio. Quando poi ti chiamano per la terapia non ti sembra vero. Vai ad avvelenarti felice, perché dopo un paio d’ore sarà tutto finito. Tornerai a casa e potrai dare quasi finta di non avere nulla. Per pochi minuti. Fingere, ecco, credo sia un’altra cosa che abbiamo in comune. Fingiamo per non far preoccupare le persone cui vogliamo bene, fingiamo per i figli, per noi stessi. Per convincerci che la vita non è in pausa. Quando il 3 luglio mi sono seduta per la sesta volta su quella soporifera poltrona arancione, mi si è avvicinata un’infermiera che non avevo mai visto prima. La mia solita Mariangela è in ferie. Questa signora ha iniziato a tastarmi il port con l’intenzione di inserire il solito ago uncinato, per attaccarmi a quelle salvifiche boccette appese.
Io la guardavo e vedevo che era perplessa.
“Ma qui ci sono tre palline…”
“Eh, ci sono sempre state.”
“Ma sei sicura?”
“Eh si.”
“No, non è possibile. Ma questo port l’hanno controllato bene in radiologia?”
Ho chiuso gli occhi. Non ho pregato, perché non serve a niente. Ma ho sperato che stesse dicendo un tummolo di stronzate. Intanto continuava a tastare. Stava per tentare di bucare, allora ho preso coraggio: “Possiamo chiamare Rossana? Guarda nulla di personale, ma alla prima e alla seconda chemio un tuo collega mi ha bucata quando 8 e quando 7 volte. E non è un ago come quello di una siringa. 
Ti prego, non procediamo per tentativi. È l’ultima chemioterapia. Chiamiamo Rossana?”
Rossana, per voi che nome lo sapete, è l’altra infermiera. Quella che poco prima di cominciare le chemio, quando avevo ancora tutti i capelli in testa, mentre mi prelevava il sangue, inizio a bisbigliare. Quasi come se quelle cose non dovesse dirmele, come se dovessero restare segrete. E mentre psrlottava si guardava attorno: “Allor, mo cominci. Farai la pipì rossa. È il farmaco, non è sangue. Non avere mai paura, mai. La paura non ti serve. Bevi. Ti diranno di bere un litro e mezzo d’acqua, bevine minimo 2. Bevi e idratati il più possibile, altrimenti ti bruci dentro. Sarà terribile fino alla 4ª o 5ª chemioterapia. Ma ti dovrai sempre alzare dal letto. Se resti stesa il tuo corpo impiegherà molto più tempo a smaltire tutto. Dovrai uscire e camminare. In piedi. Un passo alla volta. Hai capito? Quando avrai finito ti sentirai una bomba. Te lo chiedo come una sorella. Bevi.”
Tornando al 3 luglio, l’altra infermiera, si arrese e chiamò Rossana. Lei venne con i suoi capelli mogano e gli occhioni azzurri e chiese: “Ma qual è il problema?”
“Questo port ha tre palline!”
“Embè? Se non ci sono quelle tre palline, come fai a beccare il centro?” 
Infatti fu lei che, in mezzo attimo, mi infilò quel coso per l’ultima volta. 
Insomma, speriamo.
Ecco, quello che ho visto in questi mesi è stata umanità. E questo mi fa pensare a quanta poca umanità io abbia conosciuto fuori. Come quei rappresentati di una casa farmaceutica che non ho intenzione di nominare, che erano in reparto mesi fa. Io ero in attesa per una visita da ore. Una di loro tolse la mascherina esasperata: “Mio Dio, non ce la faccio più! Ma come se fa a portare sta cosa per una giornata!?” In quel momento uscì dalla sala infermieri una donnina con i capelli neri, la stessa che ti accoglie all’ingresso quando arrivi e che non dice mai tumore, ma solo malattia. Si chiama Gilda. La fece monnezza: “O lei si rimette subito la mascherina o la faccio sbattere fuori. Qui ci sono persone in terapia o che devono essere visitate e non mi pare che si lamentino. Gente che se si ammala non rischia una febbre e basta. Lei queste cose dovrebbe saperle. Rimetta la mascherina o vada fuori.” 
Gilda è una che se ti vede male, ti invita a fare il gioco delle ore: un’ora sto male, allora tra un’ora starò bene. Lei è quella che quando sa che è l’ultima chemioterapia stringe il pugno e poi ti dice: 
“Fatti i monoclonali nun t fa verè chiu”. 
Io adesso mi sento come se mi fossi arrampicata, per tutti ‘sti mesi. 
Eppure il 3 luglio è arrivato. Pareva ieri. 
Non lo so cosa succederà domani, nè come mi sentirò. 
Ma sto in piedi.