La cardarella è poliglotta. Translate!

22 nov 2023

La diagnosi

 Il giorno prima era giovedì ed ero seduta, come ogni giovedi pomeriggio, fuori il centro di riabilitazione dove mio figlio fa terapia. Mi ha squillato il telefono, era il gastroenterologo. 

"Pronto."

"Teresa sono il dottor Irlandese. Domani devi venire in ospedale perchè sono arrivati i risultati dell'istologico,"

Saltai dalla sedia e mi precipitai a comprare una bottiglietta d'acqua alle macchinette, come se bevendo avessi potuto lavare via quel momento, come se avessi potuto cancellarlo. 

"Brute notizie, è vero?"

"Teresa devi venire in ospedale domani."

"Uà, io o sapev!!!"

"Chi lo tiene lo sa sempre."

La mattina dopo alle 8.30 ero lì, entrai subito. "Purtroppo la lesione allo stomaco si è rivelata essere un linfoma, di quelli brutti. Tu devi iniziare subito le chemioterapie. Adesso ti do i numeri del cardarelli e ti devi attaccare al telefono, devono inserirti in ematologia. Se dal cardarelli non ti rispondono o vedi che ci vuole tempo, mi chiami e ti inserisco io al Loreto mare. Lì ci sono i nostri oncologi."

Il dottore parlava e l'unica cosa che mi domandavo io era "ma che cos'è un linfoma?" e poi "ma perché devo fare le chemioterapie?" e anche "ma è la mia vita, questa? Siamo sicuri?". Avrei pagato pur di sentirmi dire che fino a quel momento mi trovavo in una situazione tipo The Truman show e che avevano dato sta botta di colpo di scena. "Dottore ma il Pascale?" domandai in un attimo di lucidità.

"Il Pascale lascialo perdere che ha delle lista d'attesa lunghissime, tu devi iniziare subito."

Uscii da quella stanza credo volando, il contatto con la realtà non lo volevo. Arrivai giù in strada e ebbi la forza solo di appoggiarmi a peso morto a un palo della luce e piangere, come forse non ho mai pianto in vita mia. Telefonavo al cardarelli di continuo, come quando il medico ti dice di prendere tre compresse al giorno e tu lo fai senza nemmeno chiederti perché. L'ha detto lui, dev'essere vero per forza. Anche Roberto chiamava, disperatamente. La botta di culo la ebbi io. Risposero e mi diedero appuntamento per il pomeriggio di quello stesso giorno, alle 16.30. Visita al terzo piano in ematologia. La dottoressa guardò le carte e mi confermò che l'unica cosa da fare era organizzare le chemio e le immunoterapie. "Ma quindi devo fare quelle chemio che fanno perdere i capelli?" Si vide dall'espressione che non avrebbe mai voluto dirmelo, ma la realtà dei fatti era questa: "Ricresceranno più belli di prima. Ne avrai così tanti, riccioli e bellissimi." E lì piansi di nuovo. E poi chiesi: "E mò Alessandro come fa?" A quella domanda fatta all'etere ad alta voce la dottoressa, mi ricordo, ebbe un'espressione triste, chiuse gli occhi un secondo e mi guardò crollare. Ma la mia vita dove stava, chi se l'era presa? Perché mi è stato imposto di tirare il freno a mano? Che cos'è questo freddo che sento all'improvviso? E poi la domanda che qualsiasi paziente oncologico si fa e vale un milione di dollari: "Perché a me?" Ma dio come al solito ha troppo da fare per risponderti e ti lascia sola. La dottoressa chiamò al primo piano e parlò con quelli che, non lo sapevo, mi avrebbero salvato la vita. che per un anno che è durato un'eternità ho considerato la mia famiglia. Quelli che mi hanno accolta, rivoltata, abbracciata, consolata, rimproverata, ascoltata. Iniziai una settimana dopo. Il primo giorno di day hospital mi sentii come un pesce fuori dall'acqua, nonostante le mille certezze sulla mia condizione mi domandavo di continuo che cazzo ci facevo lì, chi era tutta quella gente, che c'erano quelle buste arancioni che arrivavano conservate in una teca di plastica sigillata e perché tutti gioivano quando le vedevano varcare la soglia del reparto. Poi ho imparato i nomi, le dinamiche, i tempi. E ogni volta che salivo le scale per arrivare il primo piano ero serena, perché stavo andando a casa.